Insalivated fermented brews
Le birre, cioè quelle bevande alcoliche ottenute attraverso la fermentazione di prodotti vegetali amilacei (radici, tuberi, cereali), nella storia dell’etnofermentologia – come ama chiamarla Gonçalves da Lima (1990: 319) – hanno come precursori le birre insalivate. Queste sono ottenute con la tecnica della pre-masticazione di materiale amilaceo, che produce una sua saccarificazione, facilitando quindi il processo di fermentazione alcolica da parte di microorganismi diffusi nell’ambiente. A questo gruppo di bevande appartengono, ad esempio, la chicha prodotta dal mais e il cauim prodotto dal mais o dal tubero della manioca (Manihot esculenta Crantz, famiglia delle Euphorbiaceae), due diffusissime bevande tradizionali sudamericane.
In diverse aree del globo le birre insalivate furono presto sostituite dalle birre maltate (in particolare in Europa) e dalle birre chiare (in particolare in Asia), ricavate con tecniche più avanzate di saccarificazione e di inoculazione del materiale vegetale amilaceo. Ma presso non poche popolazioni tribali è sopravvissuta la primitiva pratica della pre-masticazione per la preparazione di bevande alcoliche, in particolare in America Latina e a Formosa.
Uno dei primissimi riferimenti a una bevanda alcolica insalivata sudamericana ci è stato tramandato da Hans Staden (1991: 115-6), il marinaio tedesco che verso la metà del XVI secolo fu catturato in Brasile dai Tupinamba, presso i quali trascorse alcuni anni di prigionia. Nella biografia della sua avventura egli descrive minuziosamente la preparazione del cauim, un compito rigorosamente femminile. Le radici di manioca venivano innanzitutto sottoposte a una prima cottura in grandi pentoloni, dai quali erano poi trasferite in un altro grande recipiente e lasciate raffreddare. Quindi un gruppo di donne si sedeva in circolo attorno a questo recipiente per cimentarsi nel lavoro collettivo di masticare pezzi di manioca, per poi gettarli in un altro contenitore dove si aggiungeva acqua e si rimetteva sopra al fuoco. Il liquido così ottenuto era versato in recipienti speciali, parzialmente interrati, che venivano ben coperti e dove si lasciava fermentare. Dopo un paio di giorni il cauim era pronto. Staden (1991: 116) riferisce ulteriori particolari sulle modalità d’uso della bevanda: “Ogni capanna prepara le proprie bevande. E quando uno dei villaggi desidera far festa, il che di norma avviene una volta al mese, si radunano tutti insieme in una capanna e bevono fino all’ultimo goccio. Poi passano nella capanna successiva, e così via, fino a consumare la provvista di bevande di tutto il villaggio”.
Nel 1584 il padre gesuita José de Anchieta, trattando anch’egli del cauim dei Tupinamba, riportava che “dopo aver fatto bollire per due giorni, lo bevono quasi caldo, perché in tal modo non gli fa tanto male né li ubriaca tanto, al punto che molti di loro, in particolare i vecchi, per tanto che bevono, con meraviglia non perdono il cervello, stanno solo caldi e allegri. Solo col vino di frutta si ubriacano molto e perdono il cervello, per cui di questo bevono molto poco. Ma di vino comune ricavato dalle radici e dal mais ne bevono così tanto che a volte vanno due giorni e due notti bevendo e a volte di più, principalmente nelle mattanze dei nemici, e tutto questo tempo cantando e ballando.”
Il processo di pre-masticazione può durare a lungo, in certi casi anche un paio di giorni. Alcide D’Orbigny (1839: II, 466) riportava che nella cittadina di Apopaya, sul versante boliviano delle Ande, “niente di più singolare è vedere 8-10 persone prendere costantemente un pugno di semi di mais per masticarli sino a che non sono ben macinati e mescolati con la saliva” per ottenerne in seguito a fermentazione la chicha. La parola chicha deriverebbe dal verbo nahuatl chichiani, che significa “sputare”, evidenziando quindi l’importanza del processo di insalivazione per la preparazione della bevanda inebriante (Gonçalves da Lima, 1990: 311).
Nei medesimi anni di Staden e Anchieta, il frate francescano André Thevet (1557-58), descrivendo la preparazione del cauim a base di mais fra gli indigeni di Cabo Frío, riportava la “superstizione” che dovevano essere delle ragazze vergini a masticare e insalivare i chicchi di mais, o tutt’al più donne maritate ma in astinenza sessuale a partire da alcuni giorni prima della preparazione del cauim; in caso contrario, si riteneva che la bevanda si sarebbe guastata risultando imbevibile. Una credenza affine è stata riscontrata presso i nativi di Formosa, che nella preparazione della loro birra ricavata dal pane e dal riso fanno svolgere il compito della pre-masticazione esclusivamente a donne che hanno raggiunto la menopausa (Gonçalves da Lima, 1990: 301).
Verso la fine del XVI secolo (forse nel 1594), un gesuita rimasto anonimo scrisse una Relación de las costumbres antiguas de los naturales del Pirú, dove si sofferma sul processo di preparazione e di insalivazione della chicha delle popolazioni quechua peruviane, offrendo un’acuta osservazione circa la repulsione da parte degli Europei per questa bevanda, i quali, nel bere il vino d’uva – specie di quei tempi – non pensavano che veniva preparato mediante la pressatura dei grappoli d’uva a piedi nudi e sempre sporchi:
“Comandarono ai medici che, affinché il vino [la chicha] avesse gli effetti richiesti, cioè di lavare la vescica e di disfare la pietra [i calcoli], si pulisse il mais con la saliva umana, che è molto medicinale. E in tal modo nacque il costume di far masticare il chicco di mais ai bambini e alle ragazze, e di porre il materiale masticato in contenitori per poter in seguito cuocerlo e filtrarlo attraverso diversi imbuti di stoffa di cotone e acqua limpida, e il liquido ricavato da queste operazioni era il vino, che fu usato per molto tempo, e per il fatto di essere medicinale non v’era da preoccuparsi che avrebbe potuto indurre ripugnanza per essere stato il mais masticato, in quanto che per motivi di salute oggi gli uomini mangiano cose orribili, come canina di cane, orine e altre cose molto ripugnanti, che in paragone, la saliva dell’uomo è cosa più pulita. E quando ci mettono del vino in tavola, non ci ricordiamo del fatto che è stato spremuto e pestato con i piedi sudici e polverosi dell’uomo.” (Barba, 1968: 174-5).
Massimilian zu Wied-Neuwied (1820: 411), nella descrizione del suo viaggio in Brasile fra le tribù di etnia Gé lungo il Rio Jurucucu, evidenziava la netta distinzione dei ruoli fra uomini e donne nella preparazione del cauim di mais: gli uomini, riuniti in gran numero per l’occasione, si cimentavano nel taglio trasversale di un albero (Bombax sp.), dal cui tronco svuotato ricavavano un grosso recipiente che veniva collocato semi-interrato nel terreno e che sarebbe servito in seguito per la fermentazione della bevanda. Nel frattempo le donne si cimentavano nell’operazione di masticazione e insalivazione dei chicchi di mais. Wied notò che fra queste tribù la preparazione e il consumo del cauim assumeva aspetti cerimoniali ed era accompagnata da specifiche musiche e danze, come nel momento dell’assunzione collettiva: “quattro uomini si inclinano leggermente, avanzano e passando in mezzo si dispongono in circolo, mantenendosi uno dietro l’altro. Le donne a questo punto entrano nel ballo, appoggiando ognuna la mano sinistra sulla spalla dell’altra; poi uomini e donne alternativamente girano senza fermarsi, al suono di questa musica incantevole, girando attorno al recipiente che contiene la bevanda desiderata … Si dirigono quindi uno dopo l’altro verso il recipiente, da dove ciascuno con una cuia [specie di cucchiaio] prende il cauim e lo beve.”
Anche l’antropologo Alfred Métraux (1928: 197-8), che osservò i Tupinamba nella loro vita quotidiana, ha evidenziato l’importante ruolo sociale del cauim, consumato ad ogni occasione di un certo rilievo, quali la prima mestruazione, una nascita, la perforazione iniziatica del labbro inferiore di un ragazzo, nelle assemblee per prendere importanti decisioni per la vita collettiva e perfino nei preparativi per la guerra e nel sacrificio rituale dei prigionieri. Gli anziani venivano sempre serviti per primi e con un rispetto quasi cerimoniale.
Pure presso i Guaraní boliviani il cauim svolge un ruolo fondamentale nella loro vita, al punto che un vecchio indio sintetizzò il loro uso di questa bevanda inebriante nella frase: “Il cauim è nostro padre e nostra madre” . Sempre Métraux riportava che il cauim per i nativi “è il padre dell’allegria, il segnale dell’abbondanza, il compagno dei momenti più belli dell’esistenza, così come dei più tragici. V’è in esso una forza misteriosa e mistica che penetra l’individuo, lo esalta e protegge contro i pericoli sovrannaturali”.
A questo riguardo, José de Anchieta, in un poemetto trilingue del XVI secolo dove riportava e criticava i costumi dei nativi brasiliani, fece cantare a un personaggio folclorico nativo chiamato Guaixará – adeguatamente demonizzato dall’interpretatio cattolica – una sarcastica ode a sé stesso, dalla quale si evince un ruolo di tipo dionisiaco, in particolare nella presenza irresistibile, trascinante e ineluttabile nella società della bevanda inebriante del cauim:
“Io solamente
in questo paese sto,
come il suo guardiano,
facendo seguire le mie leggi …
sono il diavolo arrostito,
chiamato guaixara, …
il mio sistema è gradevole,
non voglio che sia obbligato
né abolito,
pretendo
inquietare tutti i paesi,
buona cosa è bere
il cauim fino a vomitare,
questo è molto apprezzato,
questo si raccomanda,
questo è ammirevole” (Anchieta, XVI secolo).
Si deve notare che le altre bevande alcoliche ricavate dalla frutta o differenti fonti vegetali, di cui dispongono queste popolazioni, non hanno mai raggiunto quel valore sacrale e cerimoniale riservato alle bevande insalivate.
La saliva è associata alla storia delle birre e delle altre bevande alcoliche fermentate poiché, come già evidenziato, coinvolta in una primitiva fase della etnofermentologia, dove un po’ in tutto il mondo si scoprì come preparare bevande inebrianti alcoliche da materiale vegetale pre-masticato; fu una scoperta dei periodi neolitici o forse epi-paleolitici dell’umanità. La gradazione alcolica variava e varia tutt’ora fra i 2 e i 7-8 gradi alcolici.
Quanto alle origini, apparentemente insolite ed enigmatiche dell’atto di pre-masticare e insalivare qualcosa e di estrarlo quindi dalla bocca, queste si chiariscono osservando che l’azione della pre-masticazione era ed è tutt’ora diffusa come comportamento materno con lo scopo di rendere maggiormente digeribile il cibo per il bambino. E’ stato osservato, ad esempio, fra i medesimi gruppi etnici brasiliani che preparano e usano il cauim e la chicha. Nella lingua nahuatl esiste un verbo, pauia.nite, specifico per indicare l’azione da parte della madre di pre-masticare il cibo per il bambino. Questo comportamento sembra essere diffuso anche fra i macachi e altri mammiferi superiori (Gonçalves da Lima, 1990, p. 297). E’ quindi assai probabile che la scoperta avvenuta diverse migliaia di anni fa della fermentazione alcolica di materiale vegetale insalivato sia da attribuire alle donne e non è un caso che ancora oggi sia compito esclusivo femminile la pre-masticazione per conseguire bevande inebrianti.
Riferimenti a usi, tradizioni e culti associati alle bevande fermentate insalivate sono presenti presso diverse popolazioni antiche del globo, in particolare quelle indoeuropee, come testimonianza della diffusione di questa arcaica tecnica per ottenere l’ebbrezza; del resto, per spiegare l’universalità di questa primitiva fase dell’etnofermentologia non è necessario elaborare intricate ipotesi diffusioniste, essendo probabile un caso di convergenza culturale, ritenendo possibile che questa scoperta sia originata in maniera indipendente in differenti luoghi.
Presso le popolazioni slave nord-europee era diffusa un’antica tradizione che riteneva che la birra, per poter fermentare, dovesse avere come ingrediente la “spuma dell’orso”, cioè la bava o saliva di questo animale, tanto reale quanto mitologicizzata da quelle popolazioni. Non è casuale la relazione etimologica esistente fra i termini tedeschi Bier (birra) e Bär (orso), così come l’impiego del medesimo nome nordico antico bjorr per indicare entrambi la birra e l’orso. Nel poema epico finlandese Kalevala (XX, 300-310) v’è un interessante riferimento alla preparazione della birra alla quale si aggiungeva saliva “delle orribili fauci dell’orso”. Nell’Edda (Snorri, 4), poema norreno del XIII secolo, viene descritta la pace fra gli Asi e i Vani, due gruppi di dei da tempo in guerra fra loro; per sigillare la pace appena fatta, gli dei di entrambe le schiere sputano nel medesimo recipiente e da questo ammasso salivare creano un uomo di nome Kvasir dotato di saggezza straordinaria. Questa figura mitologica appartiene al ciclo indoeuropeo dell’Uomo-Bevanda inebriante, di cui il Soma e l’Haoma sono le manifestazioni più note (Dumezil, 1974, p. 44-6). Il nome Kvasir è strettamente associato al kvas degli Slavi e dei Russi e al kvase norvegese e danese (Isnardi, 1991, p. 107), che sono nomi indicanti bevande fermentate alcoliche di tipo insalivate, per lo meno nelle fasi primitive della loro preparazione.
Il fatto che Kvasir sia dotato di grande saggezza è dovuto alla sua nascita dalla saliva degli dei; si potrà arguire che le salive divine portano saggezza proprio per la loro natura divina, ma presso diverse culture antiche e attuali sono presenti riferimenti alla saliva, anche umana o animale, come portatrice di saggezza.
In alcune fiabe macedoni un serpente, per ringraziare un uomo che lo ha salvato, gli sputa in bocca e in tal modo l’uomo acquisisce e comprende il linguaggio degli animali o, in un altro racconto, acquisisce virtù profetiche (Eschker, 1998: 141, 206). Si presentano anche alcuni casi, a mo’ di eccezioni che confermano la regola, in cui la saliva o lo sputo assumono valenza opposta, cioè come detrattori di saggezza. In alcune versioni del mito greco di Glauco, il medico-indovino Polyidos, dopo aver insegnato a Glauco l’arte della mantica e volendo che la sua mente se la dimenticasse, gli sputò in bocca (Paladino, 1978).
Oltre al diffuso valore terapeutico della saliva, esistono casi etnografici, tuttora carenti di studi specifici, in cui la saliva possiede un valore simbolico e rituale come elemento portatore di saggezza. Fra i Chibcha colombiani la saliva dello sciamano (cacique) è considerata sacra e svolge un ruolo cerimoniale importante nella preparazione rituale della chicha. E’ noto anche che presso diverse tribù del nordest brasiliano la saliva assume valori terapeutici seguendo un’articolata differenziazione fra saliva ottenuta in seguito a prolungato digiuno (“sputo vergine”), saliva del fumatore di pipa di tabacco, saliva del masticatore di foglie di tabacco, ecc. (Gonçalves da Lima, 1990, p. 332).
Verificata la presenza della saliva come importante elemento nella primitiva fase dell’etnofermentologia, è possibile che il suo valore simbolico come portatrice di saggezza origini dal concetto che la saliva – umana, animale o divina che sia – è responsabile della produzione di bevande inebrianti – queste ultime universalmente arrecanti saggezza, oltre che allegria –, seguendo quindi il sillogismo: saliva = ebbrezza = saggezza (Samorini, 2016).
Si vedano anche:
ANCHIETA de JOSÉ, XVI secolo, Auto representado en la Fiesta de San Lorenzo (trascritto, commentato e tradotto da M. de L. de Paula Martins, Museu Paulista, vol. I, Anno I, p. 25, 1948).
ANCHIETA de JOSÉ, 1886, Informaciones del Brasil y de sus Capitanías, (ristampa 1886, Imprensa Nacional).
BARBA ESTEVE FRANCISCO, 1968, Crónicas peruanas de interés indígena, Biblioteca de Autores Españoles, Madrid. [Lo scritto Relación de las costumbres antiguas de los naturales del Pirú, del Gesuita Anonimo, è riportato in forma integrale alle pp. 151-189. Diversi studiosi hanno identificato l’autore di questo scritto con Blas Valera, ma questa problematica identificativa non può considerarsi risolta; si veda Barba alle pp. XLIV-LI].
D’ORBIGNY ALCIDE, 1839, Voyages dans l’Amerique Méridionale (1826-1833), Paris.
DUMEZIL GEORGES, 1974, Gli dei dei Germani, Adelphi, Milano.
ESCHKER W., 1998, Fiabe macedoni, Mondatori, Milano.
GONÇALVES DA LIMA OSVALDO, 1986, El maguey y el pulque en los códices mexicanos, Fondo de Cultura Economica, México D.F.
GONÇALVES DA LIMA OSVALDO, 1990, Pulque, balché y pajauaru en la etnobiología de los alimentos fermentados, Fondo de Cultura Económica, México.
ISNARDI CHIESA G., 1991, I miti nordici, Longanesi, Milano.
MÉTRAUX ALFRED, 1928, La religion des Tupinamba, Librairie Ernst Laroux, Paris.
MÉTRAUX ALFRED, 1930, Études sur la civilisation des indiens chiriguano, Revue de l’Institute d’Etnologie, Univ.Tuc., vol. 1: 358.
PALADINO I., 1978, Glaukos, o l’ineluttabilità della morte, Studi Storico-Religiosi, vol. II(2): 299-303.
SAMORINI GIORGIO, 2016, L’Uomo-Bevanda. L’origine delle bevande fermentate insalivate, Erboristeria Domani, N. 397, pp. 70-77.
STADEN HANS, 1991 (1557), La mia prigionia fra i cannibali (1553-1555), a cura di Amerigo Guadagnin, E.D.T., Torino.
THEVET ANDRÉ, 1557-58, Les Singularitez de la France Antarctique, autrement nommée Amérique, Paris.
WIED-NEUWIED zu MAXIMILIAN, 1820, Reise nach Brasilien in den Jahren 1815 bis 1817, Weimar.
3 Commenti
Ben fatto Giorgio. la saliva compare anche come lievito-medicina nelle parabole Evangeliche, dove Gesù, tramite di essa, ridona la vista ai “ciechi” nei pressi della cisterna di Siloè a Gerusalemme. Inoltre nella trans-sunstanziazione dell’acqua in vino, nel miracolo delle nozze di Cana, vi è un vangelo apocrifo che rivela come lui sputasse entro la giara del liquido d’acqua che prontamente divenne Vino.
infine, vorrei sottolineare un curioso riferimento alla preparazione della Pizza napoletana. Pizzaioli doc Napoletani, suggeriscono che nell’impasto originario della pizza Margherita, fosse mescolato al lievito, saliva e sudore di ascelle!
Interessante davvero…Ho trovato anche questo…
The Neolithic Grog (China, 7000 BC)
Chew rice grains so that diastase, an enzyme in your saliva, breaks the carbohydrate molecules into simple sugars
Spit back out
Dilute honey to activate its yeast and combine
Mix the honey concoction with the juices of grapes and hawthorn fruits and ferment
Tratto da: “http://www.newscientist.com/blogs/culturelab/2009/11/how-to-mix-an-ancient-cocktail.html”
Interessante e grazie per le info! Purtroppo McGovern nel suo blog fornisce le notizie senza dare i relativi riferimenti bibliografici, e così fanno in tanti, come se i riferimenti bibliografici da cui si ricavano le notizie fossero un proprio segreto professionale; un fatto che evidenzia la mentalità 1.0 sottostante. Un modo più attuale è quello di fornire le notizie congiuntamente alle fonti, cercando di fornire più fonti possibili in modo tale da facilitare e non ostacolare la ricerca.