Novella inglese di Wells

English tale by H.G. Wells

 

Herbert George Wells (1866-1946) è un famoso scrittore britannico, considerato uno dei fondatori del genere letterario della fantascienza. Una delle sue opere più note è La guerra dei mondi del 1898. In quei medesimi anni il prolifico scrittore aveva scritto una serie di brevi racconti, fra cui quello qui presentato, The purple pileus (1896), in cui appare il tema del fungo Amanita muscaria e delle sue proprietà inebrianti, anzi, appare come il motivo giustificante del racconto. Non possiedo le sufficienti conoscenze sulla biografia di Wells e sulla sua opera per comprendere quanto questo elemento – la conoscenza di una fonte inebriante visionaria usata come tema letterario – sia stato osservato e studiato nella estesa critica letteraria riguardante questo autore. Ciò che appare certo da questo racconto è che Wells era a conoscenza delle proprietà inebrianti di questo fungo; un dato che meriterebbe essere approfondito, come è stato fatto per altri scrittori in relazione alle loro conoscenze sulle fonti inebrianti (si veda ad esempio Toro, 2019 per quanto riguarda l’opera e la vita di Philip Dick).

L’inglese utilizzato da Wells è notoriamente difficile da tradurre, e qui presento una mia traduzione dall’opera originale in cui in più punti ho dovuto bypassare la traduzione letterale, presentandone una traduzione libera, che non inficia tuttavia il senso di ciò che Wells intendeva dire, e che permette comunque di comprendere la trama del racconto. A mia conoscenza, esiste un’unica versione italiana di questo racconto, intitolato “Funghi rossi” e pubblicato nel 1905 internamente alla raccolta Novelle straordinarie edito dalla casa editrice Fratelli Trevis di Milano (ripubblicato nel 2021 dalla casa editrice pugliese Intra). Ma più che una traduzione del testo originario, si tratta di un suo grossolano riassunto. La versione che qui espongo è da considerare quindi come la versione italiana più estesa di questo racconto.

 

Il signor Coombes era stufo della vita. Se ne era andato infelice dalla sua casa e, stufo non solo della sua propria esistenza ma anche di quella di qualunque altro, svoltò di lato lungo il Gaswork Lane per evitare la città, e, attraversando il ponte di legno che va sul canale di Starling’s Cottages, era attualmente solo nelle umide foreste di pino e fuori dalla vista e dal rumore delle abitazioni umane. Non lo avrebbe più sopportato. Ripeteva ad alta voce con bestemmie insolite per lui che non l’avrebbe più sopportato.

Era un ometto dal viso pallido, con gli occhi scuri e un paio di baffi fini e nerissimi. Aveva un colletto molto rigido dritto leggermente sfilacciato, che gli dava un doppio mento illusorio, e il suo soprabito (sebbene squallido) era rifinito con astrakan. I suoi guanti erano di un marrone brillante con strisce nere sopra le nocche e spaccate alle estremità delle dita. Il suo aspetto, aveva detto una volta sua moglie nei cari giorni oltre il ricordo – cioè prima che la sposasse – era quello di un militare. Ma ora lo chiamava… Sembra una cosa terribile da raccontare tra marito e moglie, ma lei lo chiamava “un piccolo bruco”. Non era l’unico modo con cui che lei lo denominava.

Era di nuovo sorto un litigio su quella bestiale Jennie. Jennie era un’amica di sua moglie e, senza alcun invito da parte del signor Coombes, veniva ogni benedetta domenica a cena, e faceva un gran chiasso tutto il pomeriggio. Era una ragazza grande e rumorosa, con un gusto per i colori forti e una risata stridula; e questa domenica aveva superato tutte le precedenti intrusioni portando un tizio con lei, un ragazzo appariscente come lei. E il signor Coombes, in un colletto inamidato e pulito e la sua redingote della domenica, stava seduto muto e adirato alla sua stessa tavola, mentre la moglie e i suoi ospiti parlavano in modo sciocco e indesiderabile e ridendo forte. Ebbene, egli resistette, e dopo cena (che, “come al solito”, era in ritardo), cosa doveva fare la signorina Jennie se non mettersi al pianoforte e suonare le melodie del banjo, per tutto il mondo come se fosse un giorno qualunque della settimana! La carne e il sangue non potevano più resistere tali avvenimenti. Avrebbero udito alla porta accanto; avrebbero udito per strada; era un pubblico annuncio del loro discredito. Doveva fare qualcosa.

Si era sentito impallidire, e una specie di rigore aveva influenzato la sua respirazione mentre si liberava. Era seduto su una delle sedie alla finestra – il nuovo ospite aveva preso possesso della poltrona. Girò la testa. “Giorno del Sole! [Sun Day] ” disse al di sopra del colletto, con la voce di uno che avverte. “Sun Day!”, quello che la gente chiama un tono “cattivo”, lo era.

Jennie aveva continuato a suonare; ma la moglie, che stava guardando degli spartiti musicali che erano ammucchiati sulla parte superiore del pianoforte, lo aveva fissato. “Cosa c’è di sbagliato ora?” disse; “la gente non può godere?”.

“Non mi dispiace affatto il divertimento razionale”, disse il piccolo Coombes; “ma non avrò le melodie di una settimana intera suonate di domenica in questa casa”.

“Cosa c’è che non va nel mio modo di suonare adesso?” disse Jennie, fermandosi e roteando sullo sgabello con un mostruoso fruscio a scatti.

Coombes capì che ci sarebbe stata una lite e che aveva iniziato troppo impetuosamente, come è comune fra gli uomini timidi e nervosi di tutto il mondo. “Stai stabile in avanti con quello sgabello!” egli disse, “non è fatto per i pesi pesanti”.

“Lascia perdere i pesi”, disse Jennie irritata. “Cosa mi stavi dicendo dietro sul mio modo di suonare?”.

“Sicuramente non resisti nel non avere un po’ di musica di domenica, signor Coombes? ” disse il nuovo ospite, appoggiato allo schienale della poltrona, soffiando una nuvola di fumo di sigaretta e sorridente ammiccando un modo pietoso. E contemporaneamente sua moglie disse qualcosa a Jennie del tipo “Non dargli retta, vai avanti, Jenny”.

“Certo”, disse il signor Coombes, rivolgendosi al nuovo ospite.

“Posso sapere perché?” disse il nuovo ospite, evidentemente godendo sia della sua sigaretta che della prospettiva di una discussione animata. Era, tra l’altro, un giovane magro, vestito molto elegantemente in un grigio chiaro con una cravatta bianca e una spilla di perle e argento. Avrebbe avuto maggior buon gusto nel venire con un cappotto nero, pensò il signor Coombes.

“Perché”, iniziò il signor Coombes, “non mi sta bene. Sono un uomo d’affari. Devo usare il mio stile. Piacere razionale…”.

“Il suo stile!” disse la signora Coombes, sprezzante. “È quello che dice sempre. Noi dobbiamo fare questo e dobbiamo fare quello”.

“Se non ti piace il mio stile”, disse il signor Coombes, “per quale motivo mi hai sposato?”.

“Me lo chiedo”, disse Jennie, e si rigirò verso il piano.

“Non ho mai visto un uomo come te”, disse la signora Coombes. “Sei totalmente cambiato da quando ci siamo sposati. Prima….”.

Poi Jennie si mise a girare, girare, girare di nuovo.

“Guarda qui!” disse il signor Coombes, spinto a ribellarsi, alzandosi e alzando la voce. “Ti dico che non voglio questo”. La redingote si era sollevata con la sua indignazione.

“Nessuna violenza, ora,” disse il lungo giovanotto in grigio, seduto.

“Chi diavolo sei?” disse il signor Coombes ferocemente.

Al che cominciarono a parlare tutti in una volta. Il nuovo ospite disse che era il “prescelto” di Jennie e che voleva proteggerla, e il signor Coombes disse che era il benvenuto a farlo ovunque tranne che nella sua (della signora Coombes) casa; e la signora Coombes disse che avrebbe dovuto vergognarsi di insultare i suoi ospiti, e (come ho già detto) che stava diventando un semplice piccolo bruco; e alla fine il signor Coombes ordinò ai suoi visitatori di uscire di casa, ma questi non vollero andarsene, e così disse che se ne sarebbe andato via lui. Con il viso in fiamme e lacrime di eccitazione negli occhi, entrò nel corridoio e mentre lottava con il soprabito – le maniche della redingote gli si erano piegate su per il braccio – diede una spazzolata al cappello di seta. Jennie ricominciò al pianoforte, e lo strimpellava con forza in modo che il suono uscisse fuori dalla casa. Tum, tum, tum. Egli sbatté la porta facendo tremare la casa. Quella, brevemente, fu la reazione immediata del suo stato d’animo. Inizierai forse a capire il suo disgusto per l’esistenza.

Mentre camminava lungo il sentiero fangoso sotto gli abeti – era fine ottobre e i fossati e i mucchi di aghi di abete erano bellissimi con i ciuffi di funghi – ripensò alla storia malinconica del suo matrimonio. Era stata breve e abbastanza banale. Ora capiva con sufficiente chiarezza che sua moglie lo aveva sposato per naturale curiosità e per sfuggire una vita di preoccupazioni, laboriosa e incerta nel laboratorio; e, come la maggior parte della sua classe, anche lei era troppo stupida per rendersi conto che era suo dovere collaborare con lui nei suoi affari. Era avida di divertimento, loquace e aperta socialmente, ed evidentemente delusa di vedere le restrizioni della povertà ancora incombenti su di lei. Le sue preoccupazioni l’avevano esasperata, e il minimo tentativo di controllare i suoi modi di procedere erano sfociati in un’accusa di “brontolio”. Perché non poteva essere gentile, com’egli era solito essere? E Coombes era un uomo così piccolo e innocuo, si nutriva mentalmente di “Auto-Aiuto”, e con una magra ambizione di abnegazione e competizione, che doveva finire in una considerazione di “sufficienza”. Quindi Jennie era entrata nella sua vita come una donna mefistofelica, una tipica amica pettegola, e voleva sempre che sua moglie andasse a teatro, e “tutto il resto”.

E inoltre c’erano le zie di sua moglie e i cugini (maschio e femmina), a divorare il capitale, a insultarlo personalmente, a sconvolgere gli accordi commerciali, a infastidire i buoni clienti, e che generalmente rovinano la sua vita. Non era stata la prima volta che il signor Coombes era uscito di casa in collera e indignato, e anche un poco impaurito, giurando furiosamente e anche ad alta voce che non l’avrebbe sopportato, e così dissipava la sua energia contro le sue resistenze. Ma mai prima d’ora era stato così malato di vita come in questa particolare domenica pomeriggio.

La cena della domenica potrebbe aver avuto la sua parte nella disperazione, e anche il grigiore del cielo. Forse, anche lui cominciava a rendersi conto che l’insopportabile frustrazione come uomo d’affari era conseguenza del suo matrimonio. Attualmente in fallimento, e dopo ciò… Forse lei poteva avere motivo di pentirsi quando sarebbe stato troppo tardi. E il destino, come ho già presagito, aveva fissato il sentiero attraverso la foresta con funghi maleodoranti, li aveva fittamente e variamente collocati lì, non solo sul lato destro, ma anche su quello sinistro.

Un piccolo negoziante è in una posizione così malinconica se sua moglie si rivela un partner sleale. Il suo capitale è tutto impegnato nei suoi affari, e lasciarla significa unirsi ai disoccupati in qualche strana parte della terra. I lussi del divorzio sono oltre le sue possibilità. Cosicché la buona vecchia tradizione del matrimonio nel bene e nel male regge inesorabilmente per lui, e le cose portano a tragiche fini. I muratori prendono a calci le loro mogli sino alla morte, e i duchi le tradiscono; ma è fra i piccoli impiegati e negozianti di oggi che si tratta più spesso di un taglio di gole. Sotto le circostanze non è poi così strano – e devi prenderlo il più caritatevolmente possibile – che la mente del signor Coombes si fosse concentrata per un po’ su qualche gloriosa fine alle sue deluse speranze, e che pensava a rasoi, pistole, coltelli da pane, e toccanti lettere al medico legale denunciando per nome i suoi nemici e pregando devotamente per il perdono. Dopo un po’ la sua ferocia cedette il posto alla malinconia. Si era sposato con questo stesso soprabito, nella sua prima e unica redingote che era abbottonata sotto di esso. Ricordò il loro corteggiamento lungo questo stesso cammino, i suoi anni di miseri risparmi per ottenere del capitale, e la brillante speranza dei suoi giorni di matrimonio. E tutto per funzionare così! Ed egli tornò alla morte come argomento.

Pensò al canale che aveva appena attraversato, e dubitava di restare con la testa fuori, anche nella parte più profonda, e fu mentre pensava all’annegamento che un pileo viola catturò il suo sguardo. Lo guardò meccanicamente per un momento, e si fermò, si chinò verso di esso per raccoglierlo, con l’impressione che fosse un oggetto di pelle piccolo come una borsa. Poi si accorse che era la parte superiore viola di un fungo, un fungo dall’aspetto particolarmente velenoso: viscido, lucido ed emanante un odore aspro. Esitò con la mano alla distanza di un pollice o giù di lì, e il pensiero del veleno gli attraversò la mente. Con quel pensiero raccolse la cosa, e si rialzò tenendola in mano.

L’odore era certamente forte, acre, ma per nulla disgustoso. Ne ruppe un pezzo, e la superficie fresca era un bianco crema, che cambiò come per magia nello spazio di dieci secondi in un colore giallo-verdastro. Anche il cambiamento di colore aveva un aspetto invitante. Ruppe altri due pezzi per vederlo ripetuto. Erano cose meravigliose, questi funghi, pensò il signor Coombes, e tutti i loro veleni più mortali, come suo padre gli aveva detto spesso nel passato. Veleni mortali!

Non c’era tempo migliore come questo per una decisione improvvisa. Perché non qui e ora? Pensò il signor Coombes. Assaggiò un pezzetto, un pezzo molto piccolo in realtà: una semplice briciola. Era così pungente che quasi lo sputò di nuovo, poi divenne semplicemente caldo e saporito, una specie di senape tedesca con un tocco di rafano e… beh, funghi. Lo inghiottì nell’eccitazione del momento. Gli piacque o no? La sua mente era curiosamente distratta. Ne avrebbe provato un altro morso. Davvero non era male, era buono. Dimenticò i suoi guai nell’interesse del momento. Giocare con la morte lo era. Prese un altro boccone, e poi deliberatamente finì con la bocca piena. Una curiosa sensazione di formicolio iniziò nella punta delle dita e dei piedi. Il polso si mise a muovere più veloce. Il sangue nelle orecchie risuonava come acqua corrente. “Prova di più,” disse il signor Coombes. Si voltò, si guardò intorno e si accorse dell’instabilità dei suoi piedi. Vide e si diresse verso una piccola macchia viola a una dozzina di metri di distanza. “Va bene, roba buona”, disse il signor Coombes. “E di più si”. Si gettò in avanti e cadde a faccia in giù, con le mani protese verso il grappolo di pilei. Ma non ne mangiò più. Dimenticò subito.

Si girò e si sedette con uno sguardo di stupore sul suo volto. Il cappello di seta accuratamente spazzolato era rotolato via verso il fosso. Premette la mano sulla fronte. Qualcosa era successo, ma non poteva determinare esattamente cosa fosse. Comunque, non era più depresso, si sentiva luminoso, allegro. E la sua gola era in fiamme. Rise nell’improvvisa allegria del suo cuore. Era stato depresso? Non sapeva; ma in ogni caso non lo sarebbe stato più. Si alzò e si fermò barcollando, guardando l’universo con un simpatico sorriso. Cominciò a ricordare. Non ricordava molto bene, a causa di un flusso di caroselli che stava iniziando nella sua testa. E sapeva di essere stato antipatico a casa, solo perché volevano essere felici. Avevano ragione; la vita dovrebbe essere il più allegra possibile. Sarebbe tornato a casa e avrebbe fatto pace e rassicurato loro. E perché non prendere un po’ di questo delizioso fungo velenoso con lui, affinché lo mangiassero? Un cappello, non meno. Alcuni di quelli rossi con macchie bianche, e qualcuno giallo. Era stato un cane depresso, un nemico dell’allegria; avrebbe rimediato. Sarebbe stato divertente rivoltare le maniche del cappotto e infilare un po’ di ginestra gialla nelle tasche del panciotto.

Poi a casa – cantando – per una serata allegra.

Dopo la partenza di Mr. Coombes, Jennie aveva smesso di suonare e si era girata di nuovo sullo sgabello musicale. “Che chiasso per niente”, disse Jennie.

“Vede, signor Clarence, cosa devo sopportare”, disse la signora Coombes.

“È un po’ frettoloso”, disse il signor Clarence, in tono di giudizio.

“Non ha il minimo senso della nostra posizione”, disse la signora Coombes, “questo è ciò di cui mi lamento. Non gli importa altro che la sua vecchia bottega; e se ho un po’ di compagnia, o compro qualcosa per mantenermi decente, o cerco di ottenere qualsiasi piccola cosa che voglio al di fuori delle spese di manutenzione della casa, ci sono disaccordi. ‘Economia’, dice; ‘lotta per la vita’, e quant’altro. Sta sveglio le notti per questo, preoccupandosi di come può fregarmi di uno scellino. Voleva che mangiassimo il burro del Dorset una volta. Se una volta dovevo cedere a lui… ecco!”

“Certo,” disse Jennie.

“Se un uomo apprezza una donna”, disse il signor Clarence, sdraiato sulla poltrona, “deve essere preparato a fare sacrifici per lei. Da parte mia”, disse il signor Clarence rivolgendo lo sguardo a Jennie, “non dovrei pensare di sposarmi fino a quando non sono in una posizione per fare le cose con stile. Sarebbe proprio vero egoismo. Un uomo dovrebbe passare attraverso le difficoltà da solo e non trascinarla…”.

“Non sono del tutto d’accordo con questo”, disse Jennie. “Non vedo perché un uomo non dovrebbe avere l’aiuto di una donna, purché non la tratti malamente, lo sai. È cattiveria…”.

“Non ci crederesti,” disse la signora Coombes, “ma sono stata una sciocca a sposarlo. Avrei dovuto saperlo. Se non fosse stato per mio padre, non avremmo potuto avere una carrozza per le nostre nozze”.

“Signore! non si è distinto in questo?” disse il signor Clarence piuttosto scioccato.

“Disse che doveva risparmiare i soldi per le sue azioni, o una simile spazzatura. E non mi avrebbe concesso una donna per aiutarmi una volta alla settimana se non fosse stato per il mio spiccato coraggio. E le storie che lui fa soldi— viene da me, beh, quasi piangendo, con fogli di carta e grafici. ‘Se solo potessimo superare quest’anno’, egli dice, ‘gli affari sarebbero poi destinati ad andare bene’. ‘Se solo potessimo superare quest’anno’, io dico, ‘allora sarà ‘se solo potessimo superare l’anno prossimo’, ti conosco’, io dico”. ‘E non mi scoperesti magra e brutta. Perché non hai sposato una schiava’, dico, “se ne volevi una, invece di una rispettabile?’ io dico”.

Così la signora Coombes. Ma non seguiremo ulteriormente questa conversazione poco edificante. Basti dire che il signor Coombes era stato descritto in modo alquanto soddisfacente, e passarono un po’ di tempo comodamente intorno al fuoco. Poi la signora Coombes andò a prendere il tè e Jennie si sedette civettuola sul bracciolo della sedia del signor Clarence fino a quando il tè non si mise a borbottare. “Che cos’era ciò che ho sentito? ” chiese la signora Coombes scherzosamente quando rientrò, sentendo un rumore di sbaciucchiamenti. Si erano appena seduti attorno al piccolo tavolo circolare quando si udì un primo accenno del ritorno del sig. Coombes. Si era trattato di un armeggiare con il chiavistello della porta d’ingresso.

“Ecco il mio signore”, disse la signora Coombes. “Andato via come un leone e torna come un agnello; mi sdraierò”.

Qualcosa cadde nel negozio: sembrava fosse stata una sedia. Poi ci fu un rumore come di qualche complicato esercizio di passi nel corridoio. Quindi la porta si aprì e apparve Coombes. Ma era Coombes trasfigurato. Il colletto immacolato era stato strappato con noncuranza dalla sua gola. Il cappello di seta accuratamente spazzolato mezzo pieno di un insieme di funghi, lo teneva sotto un braccio; il cappotto era al rovescio, e il panciotto adornato con grappoli di ginestre dai fiori gialli. Queste piccole eccentricità del costume domenicale, tuttavia, erano del tutto oscurate dal cambiamento del suo volto; era bianco livido, i suoi occhi innaturalmente grandi e luminosi, e le labbra azzurro pallido erano tirate indietro in un sorriso triste. “Buongiorno!” disse.

Aveva smesso di ballare per aprire la porta. “Godimento razionale. Danza”. Eseguì tre fantastici passi nella stanza e si fermò inchinandosi. “Jim!” strillò la signora Coombes, e il signor Clarence stette pietrificato, con una caduta della mascella.

“Tè”, disse il signor Coombes, “tè e anche degli sgabelli. Fratello”.

“E’ ubriaco”, disse Jennie, con voce debole. Mai prima d’ora aveva visto questo pallore intenso in un uomo ubriaco, o quegli occhi lucenti e dilatati.

Il signor Coombes tese una manciata di agarico scarlatto al signor Clarence. “Ho questa roba”, disse; “prendine qualcuno”.

In quel momento era geniale. Poi alla vista delle loro facce allarmate cambiò, con la rapida transizione della follia in una furia prepotente. E sembrava come se avesse improvvisamente ricordato il litigio della sua partenza. Con una voce così forte come la signora Coombes non aveva mai udito prima, gridò “Casa mia. Qui sono il padrone. Mangi ciò che le do!”. Urlava, come sembrava, senza uno sforzo, senza un gesto violento, stando lì come immobile come chi sussurra, porgendo una manciata di funghi.

Clarence fu preso dalla paura. Non era in grado di incontrare la furia folle degli occhi di Coombes; egli si alzò in piedi, spingendo indietro la sedia, e si voltò, fermandosi. A quel punto Coombes si precipitò su di lui.

Jennie vide un’occasione e con un grido fantasma fece per muoversi verso la porta. La signora Coombes la seguì. Clarence cercò di schivarlo. Il tavolo da tè cadde con uno schianto mentre Coombes gli si aggrappava per il colletto cercando di infilargli il fungo in bocca. Clarence fu contento di lasciare il bavero dietro di lui e si precipitò nel corridoio con macchie rosse di agarico muscario ancora aderenti al suo viso. “Chiudilo dentro!” gridò la signora Coombes, e cercò di chiudere la porta, ma invano; Jennie vide la porta del negozio aperta e svanì, chiudendola dietro di sé, mentre Clarence andò in fretta in cucina. Il signor Coombes colpì pesantemente la porta, e la signora Coombes, trovando la chiave all’interno, fuggì al piano di sopra e si chiuse nella camera degli ospiti.

Così il nuovo convertito alla joie de vivre apparve nel corridoio, le sue decorazioni un po’ sparse, ma con quel rispettabile cappello di funghi ancora sotto il braccio. Esitò quale percorso prendere e decise per la cucina. Dopodiché Clarence, che stava armeggiando con la chiave, rinunciò al tentativo di imprigionare il suo ospite, e fuggì nel retrocucina, solo per essere catturato prima che potesse aprire la porta del cortile. Il signor Clarence è singolarmente reticente sui dettagli di quanto accadde. Sembra che l’irritazione transitoria del signor Coombes fosse svanita di nuovo, ed era ancora una volta un simpatico compagno di giochi. E dato che c’erano coltelli e tritacarne in giro, Clarence decise molto generosamente di assecondarlo e quindi evitò qualsiasi situazione tragica. E’ indiscutibile che il signor Coombes giocò con il signor Clarence a suo piacimento; non potevano essere stati più giocosi e familiari come se si fossero conosciuti da anni. Egli insistette allegramente affinché Clarence provasse i funghi, e dopo una zuffa amichevole, fu colpito dal rimorso per come stava riducendo la faccia del suo ospite. Sembra anche che Clarence fosse stato trascinato sotto il lavandino e la sua faccia strofinata con il pennello per annerire, essendo ancora deciso ad assecondare il pazzo a qualsiasi costo, e che infine, in un modo un po’ spettinato, scheggiato e scolorito, riuscì a fuggire dalla porta secondaria della casa, la via di fuga del negozio essendo stata sbarrata da Jennie.

I pensieri vagabondi di Coombes si rivolsero quindi verso Jennie, ma questa era riuscita a rinchiudersi nel negozio, dove stette per il resto della serata.

Sembrerebbe che il signor Coombes fosse quindi tornato in cucina, sempre all’insegna dell’allegria e, seppure da severo Buon Templare, bevve (o rovesciò sulla prima e unica redingote) non meno di cinque bottiglie della birra che la signora Coombes aveva insistito di avere per il bene della sua salute. Egli fece rumori allegri rompendo il collo delle bottiglie con diversi piatti da cena che erano regali di nozze di sua moglie, e durante la prima parte di questa grande ubriachezza cantò diverse ballate allegre. Si tagliò un dito piuttosto malamente con una delle bottiglie – l’unico spargimento di sangue in questa storia – e forse le proprietà curative della bevanda alcolica placarono in un qualche modo il veleno del fungo. Ma preferiamo stendere un velo sugli incidenti conclusivi di questa domenica pomeriggio, che terminarono nella cantina del carbone con un sonno profondo e curativo.

Il racconto prosegue ripresentando il signor Coombes a cinque anni distanza, a passeggio nella medesima pineta in cui aveva raccolto i funghi, nuovamente di domenica, con un aspetto e un umore di una persona lieta della sua vita. Era in compagnia di suo fratello Tom, appena tornato dall’Australia. Dialogando con Tom il signor Coombes racconta di come gli stiano andando bene le cose e di come sua moglie lo aiuti nel suo lavoro. Aggiunge anche che non era sempre stato così, che in precedenza la moglie non si comportava bene, e che dovette giungere a un momento di forte litigio per cambiare l’atteggiamento della moglie, ma senza accennare ai funghi. Un ritorno all’argomento funghi appare nelle ultime righe del racconto:

“Quanti funghi ci sono qui!”, osservò il fratello Tom, “non comprendo a cosa possano servire in questo mondo”.

Il signor Coombes osservò. “Io dico che sono stati mandati per qualche saggio scopo”, disse il signor Coombes. E ciò come ringraziamento per il pileo viola, per aver fatto impazzire questo ometto assurdo dandogli il coraggio di un’azione decisiva, alterando in tal modo tutto il corso della sua vita (dalla versione inglese in Wells, 1898, pp. 326-344).

I coniugi Wasson discussero e riassunsero questo racconto di Wells (Wasson & Wasson, 1957, vol. 1, pp. 50-51), accompagnandolo con una critica alle poche conoscenze da parte dello scrittore inglese degli effetti reali dell’agarico muscario, prendendo come esempio il fatto che il signor Coombes viene sopraffatto da uno stupore sonnolento appena mangiato il fungo, mentre (a detta dei Wasson) il sonno di presenterebbe solamente dopo una fase esilarante. Ma ciò non è sempre vero, come evidenziato dai dati etnografici raccolti successivamente dal medesimo R. Wasson (1968, pp. 231-338), dove sono descritti casi di immediato assopimento di colui che ha ingerito l’agarico, con un successivo risveglio in una fase euforica;1 inoltre, avendo Wells scritto una novella e non un saggio di etnomicologia, non dovrebbe sorprendere l’eventuale impiego di una certa libertà letteraria, intesa come normale strumento professionale degli scrittori di fiction. Sempre i Wasson considerano la novella di Wells come una testimonianza della micofobia degli inglesi (Wasson & Wasson, 1957, vol. 1, p. 151); ma non mi trovo d’accordo. C’è qualcosa di più, di “oltre” nella novella di Wells, qualcosa che ha a che fare con una conoscenza e non con un rifiuto nei confronti dell’agarico muscario, e le medesime considerazioni finali del signor Coombes propendono maggiormente per un valore positivo del suo incontro con questo fungo.

Infine, il racconto di Wells fu descritto in italiano in maniera estremamente riassuntiva da Bruna Dal Lago (1979, p. 119), dove l’autrice lo ha arbitrariamente fatto terminare aggiungendo una connotazione sessuale non presente nel racconto originario, riportando che la moglie del signor Coombes fu trascinata per i capelli dal marito verso la stanza da letto, dalla quale uscirono due giorni dopo, con la moglie “cantando e seguendo, un po’ chinata in seguito di rispetto, il suo signore e padrone”. Si tratta di una vera e propria distorsione del senso del racconto originario di Wells, che introduce scorrettamente l’idea di impieghi afrodisiaci dell’agarico muscario.

 

Nota

1 – Ad esempio, secondo quanto riportato da Bogoras (1904-09, p. 206), i Chukchi ritengono che è meglio addormentarsi subito dopo aver mangiato i funghi, poiché in questo modo l’effetto sarà più potente quando si risveglierà.

 

Riferimenti bibliografici

Bogoras Waldemar, 1904-09, The Chukchee, Brille, Leiden.

Dal Lago Bruna, 1979, Storie di magia, Lato Side, Foligno.

Toro Gianluca, 2019, Percezione di Realtà. Le droghe nella vita e nell’opera di P.K. Dick, Nautilus, Torino.

Wasson R. Gordon, 1868, Soma. Divine mushroom of immortality, Harcourt Brace Jovanovich, New York.

Wasson P. Valentina & Gordon R. Wasson, 1957, Mushrooms, Russia and History, 2 vols., Pantheon, New York.

Wells Herbert George, 1898, Thirty strange stories, Harpert & Brothers, New York.

Wells Herbert George, 1905, Novelle straordinarie, Fratelli Treves, Milano (riedito nel 2021 da Intra Edizioni, Mombaroccio, PU).

 

Si vedano anche:

Scrivi un Commento

Il tuo indirizzo Email non verra' mai pubblicato e/o condiviso. I Campi obbligatori sono contrassegnati con *

*
*

  • Search