Multidisciplinarietà dell’etnobotanica

Multidisciplinarity of ethnobotany

 

Definizioni e competenze

Durante il XIX secolo, una nuova disciplina iniziò a insinuarsi fra la botanica e l’etnografia; un campo della ricerca che si occupava di raccogliere e studiare le conoscenze delle popolazioni tribali in materia di piante. I primi tentativi di definizione di questo campo d’indagine si videro già agli inizi del XIX secolo, in pieno sviluppo delle discipline botaniche ed etnografiche su tutto il globo.

Nel 1819, il botanico svizzero Augustin de Candolle usò il termine botanica applicata per indicare lo studio dell’uso umano delle piante, un termine che ebbe un suo successo, sino a essere impiegato attualmente per indicare lo studio di certi aspetti dell’etnobotanica.

Nel 1875 Stephen Powers definì botanica aborigena il campo di indagine degli impieghi nativi delle piante, facendo notare come in questo contesto il termine botanica fosse poveramente comprensivo, e ch’egli utilizzava in mancanza di un concetto migliore. Sotto questo termine incluse tutte le forme del mondo vegetale che gli aborigeni usano come medicina, cibo, per fabbricare tessili, ornamenti, ecc. I suoi studi erano focalizzati sulla conoscenza del mondo vegetale di alcuni gruppi nativi della California, e osservò quanto queste conoscenze fossero profonde, al punto che asseriva “senza esitazione che un indiano di intelligenza media, anche se non è un medicine-man, conosce un catalogo di nomi di piante maggiore di quello noto al 90% degli Americani occidentali” (Powers, 1875, p. 373).

L’anno successivo, il botanico francese Alphonse Rochebrune (1876) usò il termine etnografia botanica per delineare lo studio delle piante ritrovate in associazione ad antiche mummie peruviane, dando quindi origine al filone di studi che oggi rientrano nelle categorie di archeobotanica e paleobotanica.

John W. Harshberger (1869-1929) (da Schultes & Reis, 1995, p. 2)

John W. Harshberger (1869-1929) (da Schultes & Reis, 1995, p. 2)

È solo sul finire del XIX secolo che fu coniato il termine oggi maggiormente accettato e impiegato per designare questa disciplina, quello di etnobotanica; un vocabolo usato per la prima volta nel 1896 dal botanico statunitense John W. Harshberger. Egli assegnò a questo campo d’indagine il compito di “delucidare la posizione culturale delle tribù che hanno usato le piante come cibo, riparo o vestiti”, e comprese che questo tipo di studi sarebbe stato utile per gettare luce sulla distribuzione antica delle piante, sulle antiche rotte attraverso le quali le piante si sono diffuse per opera dell’uomo, e per suggerire impieghi utili e nuovi per la cultura occidentale, quali le tecnologie di manifattura basate sull’impiego delle piante. Suggeriva anche che i musei si dotassero di sezioni riguardanti l’etnobotanica, con collezioni di semi, e di un giardino etnobotanico dove poter coltivare e studiare le piante impiegate tradizionalmente (Harshberger 1896).

Mezzo secolo più tardi, Jones (1941) ridefinì il concetto di etnobotanica dato da Harshberger come “lo studio delle interazioni dell’uomo primitivo e le piante”.
Da questo breve prospetto storico, si evince come i concetti originari dell’etnobotanica fossero indirizzati verso le conoscenze dei popoli “altri”, al punto che per molti decenni per etnobotanica si intendeva esclusivamente la raccolta e l’elencazione di ciò che riportavano le popolazioni native sulle piante e sui loro impieghi.

Già dai primordi della sua storia, l’etnobotanica è stata soggetta a un forte spettro interpretativo e definitorio circa i suoi compiti e ruoli, e che cosa sia l’etnobotanica e di cosa si occupi, ancora oggi varia a seconda degli interessi specifici dell’etnobotanico che la definisce.

Per Lipp (1995, p. 52) l’etnobotanica “è lo studio delle relazioni interattive fra le società non industriali e il loro ambiente floristico”, si occupa principalmente dell’impiego delle piante da parte delle culture non occidentali, e dei seguenti temi: tassonomia folclorica, rimanenze vegetali archeologiche, origine delle piante addomesticate e coltivate, effetti ecologici dell’attività umana sulle comunità vegetali, e il ruolo simbolico delle piante nella religione, folclore e i monumenti delle prime civiltà.

Per Toledo (1995, p. 76) l’etnobotanica si suddivide in botanica economica, quando praticata dai botanici, e in “etnoscienza” quando praticata da etnologi e linguisti. Nel primo caso riguarda una disciplina orientata verso l’esplorazione di nuove fonti vegetali di interesse industriale (alimentare, tessile, farmaceutico, ecc.), mentre nel secondo diventa uno strumento per comprendere il ruolo delle piante nella cultura materiale.

Anche Wickens (2001, pp. 2, 11) parla di botanica economica, definendola come “lo studio delle piante, funghi, alghe e batteri che direttamente o indirettamente, positivamente o in maniera avversa influiscono l’uomo, il suo bestiame, e il mantenimento dell’ambiente. Gli effetti possono essere domestici, commerciali, ambientali, o puramente estetici; il loro uso può provenire dal passato, il presente o il futuro”. Il termine “economico” è qui inteso in senso utilitaristico piuttosto che monetario, e nell’etnobotanica confluirebbero quindi “tutti gli studi che riguardano le mutue relazioni fra le popolazioni tradizionali e l’uso passato e presente delle piante indigene e dei cultivar primitivi, questi ultimi non necessariamente indigeni”. Come conseguenza di questo approccio “economista”, Wickens giunge a considerare l’etnobotanica come una sezione interna alla botanica economica.

Per Jacques Barrau l’etnobotanica è un campo appartenente all’etnologia e non alla botanica, mentre per Hurrell “l’etnobotanica è una disciplina che spesso si sovrappone agli scopi di altre discipline, ma presentante l’analisi dell’associazione, interazione, relazione e contatto fra la gente e le piante come fattore comune, indipendentemente dal senso indirizzato nello studio di questa relazione” (Hurrell, 1987).

Anche le origini dell’etnobotanica vengono individuate in differenti ambiti storico-culturali a seconda degli interessi specifici degli studiosi che le definiscono.
Lipp (1995, p. 52) considera il primo studio etnobotanico il testo cinese del III secolo d.C. scritto da Hi-Han e intitolato The condition of the flora of the Southern Region, dove viene riportata l’introduzione e l’impiego cinese di numerose piante dall’Asia sud-orientale. Davis (1995, p. 41) considera come primo etnobotanico il medico greco Dioscoride, che operò nella Roma imperiale del I secolo d.C. Il suo De Materia Medica fu la base pratica e teorica della fitoterapia per i 13 secoli successivi. Schultes & Reis (1995, p. 20) considerano Aristotele il padre dell’etnobotanica occidentale. Stranamente, nessuno di questi studiosi ha considerato l’opera di Teofrasto, lo scrittore greco che visse a cavallo fra il IV e il III secolo a.C e autore di un doppio trattato sulle piante (Storia delle piante e Cause delle piante), che è da considerarsi il primo saggio di botanica e di etnobotanica della cultura occidentale.

Ma se l’etnobotanica ha inizio dove inizia l’elencazione e lo studio delle piante da parte delle antiche popolazioni, dovremmo allora indietreggiare maggiormente nel tempo, raggiungendo le culture mesopotamiche e gli antichi Egizi.
Tuttavia, in questo viaggio nel tempo, alla ricerca delle origini dell’etnobotanica, si corre il rischio di confondere la ricerca con il soggetto della ricerca: “La conoscenza circa le relazioni fra la gente e le piante nel passato è confusa con la nostra attuale definizione di una disciplina scientifica. In termini del linguaggio, potremmo dire in linguaggio naturale o colloquiale che l’etnobotanica è esistita da quando gli uomini e le piante entrarono in contatto. Tuttavia, nel linguaggio scientifico non lo possiamo dire. È un errore confondere la disciplina con il suo oggetto di studio”. Alcuni autori usano l’espressione “conoscenza etnobotanica” per denotare il corpo di conoscenza delle società tradizionali o indigene. Altri usano “conoscenza botanica tradizionale o locale”, oppure “etno-botanica” con la linetta (Albuquerque & Hurrell, 2010).
Appaiono quindi due approcci, due “anime”, nell’etnobotanica, riguardanti rispettivamente le “loro” e le “nostre” conoscenze; approcci differenti che non sono conflittuali e che convivono nella medesima disciplina scientifica.

Attualmente, la maggior parte del lavoro etnobotanico si sviluppa su tre principali direttive: studi descrittivi, di causalità e diagnostici. Gli studi descrittivi si occupano di definire un set di piante utili di una data comunità umana internamente a un ampio spettro di categorie utilitarie o all’interno di un certo dominio culturale. Gli studi di causalità cercano di individuare i fattori che potrebbero spiegare l’uso e la conoscenza delle piante. Gli studi diagnostici cercano di verificare l’efficacia e la validità delle tecniche e dei metodi; ad esempio, si preoccupano di verificare se un campione intenzionale di informatori sulle piante medicinali è più efficiente di un campione probabilistico della popolazione soggetta di studio (Albuquerque & Hanazaki, 2009).

Le piante non sono esseri viventi immutabili, sono soggetti a continui cambiamenti in risposta ai cambiamenti dell’ambiente circostante e alle loro interazioni con gli umani. Anche le piante hanno dei “comportamenti”. Ecco quindi che dall’iniziale studio della relazione dell’uomo con le piante, l’etnobotanica a un certo punto iniziò ad occuparsi dell’interazione fra queste due categorie di esseri viventi, con profondi risvolti ecologici, al punto che v’è chi vede l’uso umano delle piante come una “risposta comportamentale alle piante” (Alcorn, 1995, p. 26), e chi considera l’etnobotanica un sottocampo dell’etnoecologia (Martin, 1995, p. xx).
Senza dover prendere questa posizione forse un poco estrema, l’etnobotanica ha effettivamente incluso fra i suoi interessi l’ecologia e l’etnoecologia, con aspetti quali le interazioni piante-animali, la coevoluzione, i meccanismi di difesa, le dinamiche forestali, la dendro-demografia, ecc. (Prance, 1995, p. 62). Si potrebbe parlare di una etnobotanica ecologica, che riunisca tutti questi nuovi indirizzi d’indagine; ma quest’area si sovrappone e si interessa anche ai temi dell’etnobotanica “classica”, al punto da dover essere considerata come una modalità d’approccio dell’indagine etnobotanica.

Secondo Davis, l’etnobotanica deve registrare non solamente liste di piante usate ma una visione stessa della vita. Deve cioè “capire non tanto come uno specifico gruppo etnico usi le piante, ma come questo gruppo le percepisce, come interpreta queste percezioni, come queste percezioni influenzano le attività dei membri di quella società umana, e come queste attività a loro volta influenzano la vegetazione e l’ecosistema sulle quali la società dipende” (Davis, 1995, p. 44).

Vi sono casi dove il termine etnobotanica viene associato nei contesti di sviluppo dei moderni nativi, ad esempio internamente a programmi di preservazione ecologica di certi habitat. Peri e coll. hanno coniato il concetto di “mitigazione etnobotanica” per un progetto che comprende la protezione e il trapianto di fonti vegetali di valore per i nativi americani, e che è diventato un componente maggioritario dei programmi federali di gestione e impatto ambientale (Peri et al., 1983, rip. in Lipp, 1995, p. 52).

Si presentano casi di definizioni a volte forse un poco personalistiche. Parrebbe esserne un esempio la “fitoantropologia” definita da due studiosi indiani (Sensarma & Ghosh, 1995), secondo i quali questa disciplina si dovrebbe occupare delle differenze d’impiego delle medesime piante da parte di differenti gruppi sociali o etnici, e delle ragioni di queste differenze. L’etnobotanica e la fitoantropologia sarebbero inter-relazionate e a volte si sovrapporrebbero, senza tuttavia essere discipline identiche. La comprensione dei motivi, ad esempio, per cui in India il Ficus religiosa L. sia considerato un albero sacro da parte dei Buddisti, al punto che questi si rifiutano di tagliarlo in alcun modo, mentre alcune etnie indiane ne impieghino le foglie come abortivo, dovrebbe essere di competenza di questa “fitoantropologia”. Schultes & Reis (1995, p. 73) hanno chiamato socioetnobotanica la preoccupazione di fornire una qualche forma di ricompensa da parte delle compagnie commerciali occidentali nei confronti delle popolazioni etniche, ogni qual volta queste compagnie inizino a fare mercato di un prodotto scoperto originalmente dalle etnie tradizionali. Toledo (1995) ha elaborato il concetto di etnobotanica politica, una nuova frontiera dell’etnobotanica che dovrebbe sostituire la tradizione accademica e indurre una nuova metodologia di ricerca volta ad aiutare e proteggere le popolazioni native dall’invadenza e dai disfattismi della cultura occidentale.

Resta indubbia l’importanza della ricerca etnobotanica nelle strategie globali per la conservazione della biodiversità, tenendo in considerazione che le popolazioni tradizionali hanno una conoscenza a volte maggiore delle nostre conoscenze scientifiche, soprattutto in temi ecologici, al punto da esser sorta una specifica disciplina che le studia, l’etnoecologia. Anche per quanto riguarda le tassonomie aborigene, pur non coincidendo con quella linneana, risultano ugualmente complesse e basate fermamente sulla biologia (Davis, 1995, p. 43). “L’etnobotanica non riguarda meramente la produzione di liste di piante e dei loro impieghi, ma, in una maniera più visionaria e affascinante, riguarda la comprensione profonda di come lavorano i microsistemi socio-ecologici. Riguarda l’esplorazione di come, nei secoli, la complessa interazione fra i biota e le società umane ha promosso la creazione di territori, costumi alimentari, strategie emiche di comportamenti ricercanti la salubrità, le relazioni sociali, e anche concetti di bellezza; in altre parole, la diversità della vita in tutte le sue forme” (Pieroni & Quave, 2014, pp. 4-5).

L’etnobotanica è perfino rientrata recentemente nella gestione aborigena dei campi coltivati. Fra le etnie amazzoniche è stata osservata una consapevole gestione dei campi abbandonati, a differenza di quanto considerato e criticato dagli agronomi occidentali. Ad esempio, i Kayapó del Brasile visitano frequentemente i campi abbandonati per reperirvi fonti vegetali di primaria importanza come alimento e come medicine, oltre che come ricettacoli di animali che vengono quindi cacciati come fonte alimentare. Nella lunga fase di riforestazione dei vecchi campi “abbandonati” si creano catene ecologiche piante-animali utili come fonte di sussistenza, alla pari se non maggiori dei nuovi campi che vengono coltivati solo per qualche anno. I Kayapó non fanno una distinzione netta fra selvatico e domestico, e hanno un sistema generale di classificazione delle risorse ecologiche che forma un continuo fra quelle selvatiche e quelle domestiche. Il 94% delle centinaia di piante raccolte dai Kayapó nei vecchi campi coltivati abbandonati è da loro usato come medicina (Posey, 2002, pp. 78, 205).

Un esempio delle maggiori conoscenze tradizionali rispetto a quelle agronomiche occidentali riguarda la coltivazione del guaraná (Paullinia cupana var. sorbilis Ducke, famiglia delle Sapindaceae). I nativi avevano da lungo tempo acquisito conoscenza del fatto che le giovani foglie di questa pianta producono essudati zuccherini che vengono visitati dalle formiche, le quali in tal modo contribuiscono a proteggere la pianta da altri insetti nocivi per il suo sviluppo, e che le piante crescono meglio e offrono quindi un maggior rendimento di semi – che sono la fonte commerciale caffeinica – in presenza di queste formiche. Gli agronomi occidentali impiegano invece dei pesticidi per proteggere le piante di guaraná da tutti i tipi di insetti, e in tal modo il rendimento risulta ridotto (Prance, 1995, p. 64).

L’etnobotanica non poteva non incontrarsi anche con le teorie evolutive: “L’applicazione di molti aspetti della teoria evolutiva ai problemi etnobotanici può grandemente rafforzare molte aree della ricerca. Gli etnobotanici hanno molto da apprendere non solo in termini di consapevolezza nell’evoluzione biologica, ma anche in termini di evoluzione culturale, nella medesima maniera di altre discipline interfacciate, quali l’ecologia culturale e l’antropologia ecologica” (Albuquerque & Hanazaki, 2009).

Con un così articolato impiego del termine etnobotanica e con un grado di interdisciplinarità ormai così ampio, è difficile definire confini settoriali sia internamente all’etnobotanica che nelle sue relazioni con le altre discipline.

Presento ora una classificazione dei sottoargomenti di cui si occupa l’etnobotanica “classica”, cioè quella che si interessa della relazione dell’uomo con le piante, senza sviluppare un’affine approccio sistematico per l’etnobotanica ecologica, e che si occupa dell’interazione fra uomini e piante. Questa classificazione non ha la pretesa di essere esaustiva, cioè di riunire tutte le tipologie di relazioni causali dell’uomo con le piante, ma solo di individuarne una parte, possibilmente le principali.

Altri autori si sono cimentati in siffatte classificazioni di natura funzionalista, e v’è certamente da fare ancora molto lavoro di concordanza e di genuizzazione delle griglie di sottocampi. Ad esempio, per Nurez (in Sensarma & Ghosh, 1995, p. 69) l’etnobotanica si suddivide nelle seguenti principali sub-aree: etnobotanica generale (concetto e metodologia, etnotassonomia, psicoetnobotanica, socioetnobotanica, piante e folclore), archeobotanica e paleobotanica, agroetnobotanica, gastroetnobotanica, tecnoetnobotanica, farmacoetnobotanica, etnotossicologia delle piante, vegetali stimolanti e allucinogeni, piante aromatiche e profumeria, giardinaggio, piante e gestione ambientale, e piante e pubblica educazione.
Personalmente riconosco le seguenti aree di ricerca:

  • archeo- e paleoetnobotanica
  • etnobotanica alimentare e agronomica
  • etnobotanica medicinale
  • etnobotanica tossicologica
  • etnobotanica religiosa, mitologica e folclorica
  • etnobotanica psicoattiva
  • etnobotanica utilitaristica e manifatturiera
  • etnobotanica etologica e veterinaria

Le sub-aree di ricerca non sono compartimenti stagni e in più casi condividono luoghi e tematiche comuni sia di altri sottocampi dell’etnobotanica, che di altre discipline. È del resto evidente come lo studio etnobotanico in diversi casi non possa fare a meno di inoltrarsi in campi di indagine comuni ad altre discipline, quali l’etnografia e l’etimologia, e non v’è necessità di accaparrarsi presunti primati o precedenze d’impiego dei rispettivi insiemi di dati con lo scopo di subordinare una disciplina alle competenze di un’altra.

Etnobotanica delle piante psicoattive

Questo particolare campo dell’etnobotanica si è sviluppato nel XX secolo, e conosciamo pochi ambiti letterari precedenti, in cui sia stata sviluppata una ricerca sulle piante psicoattive; ma sarebbe forse meglio puntualizzare che ci sono pervenuti pochi documenti a riguardo, lasciando aperta la possibilità che nel passato vi siano state ricerche, anche approfondite, sulle piante inebrianti.

Nel III secolo a.C. Teofrasto descrisse numerose piante dotate di effetti inebrianti, ma come notizie disorganizzate, sparse nella sua Storia delle piante. Dioscoride radunò un insieme di piante psicoattive – dal papavero al giusquiamo alla mandragora – in una medesima sezione del Libro IV del suo De Materia Medica (in particolare 63-75), ma con finalità prettamente farmacologico-medicinali.

Plinio il Vecchio sembra essere stato il primo autore antico a descrivere in maniera maggiormente organizzata le piante inebrianti note ai suoi tempi, nell’enciclopedica opera Historia Naturalis scritta nel I secolo d.C., e i cui nomi non hanno ancora trovato una soddisfacente identificazione botanica. Già in un primo passo si era soffermato sull’alicacabo, una fonte vegetale evidentemente inebriante:

“Una terza specie [di alicacabo] ha foglie simili a quelle del basilico, e ad essa non va dedicata molta attenzione se ci si occupa di usi medicinali, e non di veleni, dato che il succo di questa pianta, anche in piccole quantità, provoca la pazzia. Ciò nonostante gli scrittori greci ci hanno anche scherzato sopra: infatti hanno sostenuto che una dracma di essa fa perdere il pudore, spiegando che si presentano delle allucinazioni e delle visioni che hanno l’apparenza del reale; che la quantità doppia provoca pazzia autentica, e che una dose ancora superiore causa la morte immediata. Si tratta della pianta velenosa che gli scrittori più benevoli hanno semplicemente chiamato doricnio, perché in essa, diffusa dappertutto, si intingevano le punte delle armi usate in battaglia. … Bevono la radice di alicacabo in pozione quelli che vogliono apparire veramente invasati dal dio, allo scopo di rafforzare la credulità nei vaticini che pronunciano” (Plinio, H.N., XXI, 177-182, nella traduzione di Francesca Lechi dell’edizione del 1985, Einaudi).

In un passo successivo, Plinio si cimentò in un’interessante elencazione di piante psicoattive, attingendo dalle conoscenze del mondo “globale” del periodo della Roma imperiale. Riporto il passo per esteso:

“La ophiusa, che cresce a Elefantina, ancora in Etiopia, è livida e sgradevole da vedere, e la sua pozione fa comparire in allucinazione visioni di serpenti tanto terrificanti e minacciose, che chi ne sia preda viene indotto al suicidio; perciò si condannano a berla i colpevoli di sacrilegio. Come suo antidoto agisce il vino di palma. La thalassoegle si trova sulle rive del fiume Indo e per questo viene chiamata anche potamaugis. In pozione causa il delirio e fa avere allucinazioni. La theangelis nasce sul versante siriano del Libano, sulla catena del Ditte a Creta, poi in Persia nella regione di Babilonia e della Susiana; i Magi la prendono in pozione prima di divinare. La gelotophyllis cresce in Battriana e attorno al Boristene. Una sua pozione in mirra e vino fa avere visioni di ogni genere e causa un riso irrefrenabile per cui l’unico antidoto è una pozione di pinoli con pepe e miele in vino di palma. La hestiateris, della Persia, prende nome dal “banchetto” perché causa effusioni di ilarità; la si chiama anche protomedía perché detiene un ruolo di primo piano all’interno della corte regale, nonché casignetes, perché cresce soltanto con piante come se stessa ed evita qualsiasi erba diversa” (Plinio, H.N., XXIV, 163-165, nella traduzione di Marco Fantuzzi dell’edizione del 1985 dell’Einaudi).

In questi passi Plinio ci offre un primissimo studio di etnobotanica delle piante psicoattive, organico seppure breve, dove presta attenzione al o ai nomi delle piante che chiama in causa, offrendo spiegazioni etimologiche, accompagnando ciascuna pianta con una breve descrizione degli effetti, e in alcuni casi persino aggiungendovi la regione geografica di diffusione della pianta: una struttura di ricerca etnobotanica che potrebbe essere riconosciuto come primo abbozzo di uno studio moderno.

Per quanto riguarda i tempi moderni, fra la prima schiera di etnobotanici che si occuparono di piante psicoattive va citato l’esploratore britannico Richard Spruce (1817-1893). Egli viaggiò in Sud America dal 1849 al 1864 con lo scopo di esplorare la vegetazione amazzonica; classificò migliaia di specie vegetali, fra angiosperme, felci, muschi e licheni, e ne spedì campioni per gli erbari dei Giardini di Kew. Acquisì importanti informazioni botaniche ed etnobotaniche sul genere di alberi Hevea (Euphorbiaceae), fonti del caucciù e di altre gomme naturali, e sul genere Cinchona (Rubiaceae), fonte della quinina, un’importante medicina anti-malarica. Riuscì a raccogliere 100.000 semi di Cinchona e a spedirli in Inghilterra, e da ciò ebbe inizio in Indocina la coltivazione su grande scala di questa pianta anti-malarica. Non svolse una ricerca meramente botanica, ma anche etnografica, linguistica, geologica, e stese ben 21 vocabolari di lingue amazzoniche. Era anche un musicista compositore e un amante del gioco degli scacchi (Sledge & Schultes, 1988). Si interessò alle fonti inebrianti impiegate dai nativi, e fu fra i primi studiosi occidentali a osservare e riportare l’impiego dell’ayahuasca e delle polveri da fiuto ricavate dai semi di yopo (Anadenanthera spp., Leguminosae), di cui raccolse campioni di parafernali (tubi inalatori, contenitori, ecc.). Classificò ben nove specie di Virola (Leguminosae), ma stranamente non raggiunse l’informazione etnografica dell’impiego delle cortecce di alcune di queste specie come fonte di polveri da fiuto allucinogene; una scoperta che spettò a Schultes il secolo successivo (Schultes, 1983).

A partire dalla seconda metà del XX secolo, la cultura occidentale iniziò a interessarsi agli alimenti nervosi, come amava chiamarli Paolo Mantegazza, e apparvero alcuni trattati che di fatto sono da considerare anche opere di etnobotanica delle piante inebrianti, in cui furono raccolti i dati sulle fonti inebrianti di tutto il mondo. I principali sono:

Baron Ernst Von Bibra (1806-1878), 1855, Die narkotischen Genussmittel und der Mensch.
Mordecai C. Cooke (1825-1914), 1860, The Seven Sisters of sleep.
Paolo Mantegazza (1831-1910), 1871, Quadri della natura umana. Feste ed ebbrezze, 2 vol.
Karl Hartwich (1851-1917), 1911, Die menschlichen Genussmittel.
Louis Lewin (1850-1929), 1924, Phantastika.

Paolo Mantegazza (1831-1910)

Paolo Mantegazza (1831-1910)

È opportuno presentare il connazionale Paolo Mantegazza, non tanto per rispetto alla connazionalità, quanto per il fondante ruolo ch’egli ebbe nel nascente campo di ricerca degli alimenti nervosi.
Personaggio eclettico e iperproduttivo, Mantegazza si interessò ai più disparati argomenti di diverse discipline scientifiche, e scrisse un gran numero di libri e di articoli inerenti l’antropologia fisica, l’etnologia, la medicina, l’igiene, la sessualità, ma anche le leggende dei fiori, la vecchiaia, “l’arte di essere felici”, e “le glorie e gioie del lavoro”.

Nei testi che trattano la storia della coca, Mantegazza è riconosciuto come l’autore dell’Ottocento che destò l’interesse occidentale nei confronti di questa pianta, per via soprattutto di un suo memorabile scritto che fu premiato e che fece molto scalpore sia in Italia che all’estero (Mantegazza, 1858), e per l’influenza che Mantegazza ebbe su Freud nel far interessare questi alla cocaina. Pur essendo stato il suo nome relegato quasi unicamente all’argomento della cocaina, il suo interesse nei confronti delle droghe fu ben più vasto, mosso da motivazioni e da obiettivi di più ampia portata. Mantegazza si interessò a tutte le droghe, e nel 1858 ne propose una classificazione di significativa importanza storica, in quanto precedeva di oltre 60 anni quella proposta nel 1924 nel Phantastika da Lewis Lewin (si veda Sistematica delle droghe).
Di professione medico igienista, resse per un certo periodo la cattedra di Patologia Generale all’Università di Pavia. In questa città egli fondò il primo laboratorio di Patologia Generale in Europa. Nel 1870, fondò a Firenze la prima cattedra di Antropologia, e la sua influente carica di senatore lo facilitò nella creazione del Museo Antropologico-Etnografico di Firenze. Nel 1871, insieme a Felice Finzi fondò la rivista Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia, rivista tuttora in corso. Era anche un grande viaggiatore; sono rimasti memorabili i suoi viaggi in Sud America. In Brasile, Paraguay e Uruguay, egli è attualmente riconosciuto come un autore classico. Le sue Cartas medicas sobre la America Meridional, del 1858, in cui sono riportati dati etnologici di prima mano, sono state stampate a più riprese nell’America Latina. In Sud America conobbe e studiò la coca e il guarana.

Mantegazza era consapevole del lavoro pionieristico che stava svolgendo sugli alimenti nervosi – “tutto questo in un tempo non molto lontano sarà scienza grossa” (Quadri, I, p. 180) – e definì i suoi Quadri come “un commento ad una pagina della storia naturale del piacere”. In quasi 900 pp. l’autore descrive un corposo insieme di fonti vegetali psicoattive, spaziando dall’alcol e le bevande fermentate al caffè, tè, mate e guarana, dal tabacco all’oppio, all’haschisch, alla coca e al kava. Un capitolo è dedicato all’agarico moscato e all’hagahuasca (ayahuasca). Per quest’ultima, Mantegazza si basò essenzialmente sulla documentazione proposta da Villavicencio nel 1858, e identificò erroneamente la pianta da cui viene ricavata la bevanda come una specie di Datura. A parte questa e altre inesattezze, dovute alla carente e confusa documentazione peculiare di quei tempi pionieristici, l’esposizione della storia di queste droghe è dotta (Samorini, 1995).

Richard Evans Schultes (1915-2001)

Richard Evans Schultes (1915-2001)

Uno studioso indissolubilmente legato all’etnobotanica delle piante psicoattive è lo statunitense Richard Evans Schultes (1915-2001), e il suo lavoro è stato così imponente e “fondante”, che a buona ragione viene considerato il “padre” dell’etnobotanica moderna. Egli fu il primo studioso moderno a evidenziare l’esigenza di studiare la stretta dipendenza e la conoscenza intima delle piante da parte delle popolazioni native, e in tutto il suo lungo percorso di ricerca ha sempre dato spazio alle indagini riguardanti le fonti inebrianti. Raccolse campioni di erbario per 25.000 specie botaniche, diverse delle quali nuove per la scienza, e documentò l’impiego di 2000 piante fra una dozzina di etnie amazzoniche.
Nel 1936, insieme all’etnografo Weston La Barre visitò i nativi Kiowa dell’Oklahoma per studiare i riti del peyote, e contribuì alla corretta identificazione dell’insieme di piante che ruotano attorno al rito del peyote (Schultes, 1937). Sviluppò estese ricerche in Messico e insieme al botanico messicano Blas Pablo Reko visitò la regione di Oaxaca. Fra i risultati di questi studi vi fu la corretta identificazione dell’ololiuhqui – semi allucinogeni impiegati ancor oggi in Messico come agenti diagnostico-divinatori (si veda I “semi parlanti” messicani) – come la specie convolvulacea Turbina corymbosa (Schultes, 1941).
Nel 1941 si recò in Colombia per studiare il curaro e rimase in Amazzonia per 12 anni. Si specializzò nelle orchidee, e nel medesimo giorno del suo arrivo a Bogotà scoprì una nuova specie, denominata più tardi in suo onore Pachyphyllum schultesi. Individuò oltre 70 specie botaniche fonti di veleni per le frecce, e chiarì l’identificazione del curaro, un problema affrontato in precedenza ma non chiarito da Spruce, realizzando che il curaro era costituito generalmente da una miscela di più ingredienti. Studiò inoltre gli alberi del caucciù del genere Hevea.
La sua ricerca in Amazzonia fu alquanto avventurosa. Una volta la sua canoa si rovesciò passando per delle rapide, perdette la guida e tutto il suo equipaggiamento. Malato di malaria e di beriberi, raddrizzò la canoa e vagò per 10 giorni lungo i fiumi, prima di incontrare un aiuto. Aveva l’abitudine di prendere parte attiva alle cerimonie religiose delle etnie che visitava, e si vestiva con i loro abiti rituali. Era in grado di comprendere 10 lingue, fra cui quelle dei Witoto e dei Makuna dell’Amazzonia. Fu il primo occidentale a osservare l’impiego amazzonico delle polveri da fiuto note come epena e parika, e a determinarle come la corteccia di alberi del genere Virola (fam. Myristicaceae) (Ponman & Bussmann, 2012; per le Virola, Schultes, 1954).

Come ogni disciplina, l’etnobotanica delle piante psicoattive ha avuto la sua “epoca d’oro”, la fase delle principali scoperte etnografiche che hanno accompagnato i decenni del lavoro di Schultes. Mentre questi era impegnato nelle ricerche in Amazzonia, Weston La Barre (1959) e più tardi Barbara Myerhoff (1974) aprirono la strada alle conoscenze dell’impiego rituale del peyote fra gli Huichol e altre etnie del Messico. Gli Huichol considerano sacro questo cactus, la “fonte della loro vita”, e hanno conservato un fenomenale sistema rituale e interpretativo della realtà basato sulle visioni indotti dal peyote.

Robert G. Wasson, lo studioso che fondò la moderna etnomicologia dei funghi psicoattivi, svolse indagini sul campo in Messico alla riscoperta dell’impiego tradizionale di funghi in contesti magico-terapeutici (si veda L’uso dei funghi in Messico), mettendo in luce come questo impiego fosse riuscito a sopravvivere nonostante l’opera inquisitoriale dei secoli precedenti (Heim & Wasson, 1958). Sempre Wasson (1968), successivamente pose l’attenzione sul soma, una bevanda inebriante e al contempo una divinità degli antichi Veda indiani, identificandolo con il fungo Amanita muscaria, e portò alla ribalta l’importanza dei Misteri Eleusini, un culto collettivo religioso greco che perdurò un paio di millenni e in cui veniva assunta una bevanda visionaria, il ciceone (Wasson et al., 1978; si veda I Misteri Eleusini). Da questi studi si iniziò a intravedere un quadro più organico dei riti in cui sono coinvolte le fonti inebrianti visionarie, e si comprese che i Misteri Eleusini, le velada messicane – riti a base di funghi allucinogeni –, e il culto del peyote fra gli Huichol hanno qualcosa in comune, e cioè un’esperienza psichica indotta da una fonte inebriante, variamente interpretata a seconda del contesto culturale come fonte di ispirazione mistica o come agente magico-terapeutico.

Altre importanti ricerche sviluppate nella seconda metà del XX secolo sono state indirizzate verso lo studio del complesso etnobotanico andino del San Pedro, un cactus allucinogeno che possiede proprietà affini a quelle del peyote (si veda L’uso tradizionale del cactus del San Pedro). Attorno ai riti e all’assunzione del San Pedro ruota un folto insieme di piante medicinali, magiche, psicoattive, e i curandero fanno quasi sfoggio delle loro più profonde conoscenze in materia di piante; questi studi hanno visto anche la partecipazione di autori italiani, quali Mario Polia per la parte etnografica e antropologica (Polia, 1989, 1997), e Vincenzo De Feo per la parte etnobotanica (De Feo et al., 2002).

Per tutto il XX secolo si sono sviluppati studi sul “complesso dell’Ayahuasca” delle foreste sudamericane, fra i quali ricordo quelli etnografici di Plutarco Narnajo (1970) e quelli di Holmstedt e Lindgren (1967); questi ultimi portarono alla comprensione del meccanismo d’azione farmacologica di questa fonte inebriante complessa, costituita sempre da almeno due ingredienti, entrambi fattori chiave per l’innesco dell’effetto visionario.

Sul fronte delle polveri da fiuto allucinogene, specie quelle ricavate dai semi di cebil e di yopo (o epena) (Anadenanthera spp.), sono da annoverare le ricerche etnografiche di Siri von Altschul (1972) e quelle archeologiche di Henry Wassén (1965) e di Costantino M. Torres (Torres, 1995; Torres & Repke, 2006), che hanno apportato importanti contributi nello studio del complesso inalatorio andino, di cui sono rimaste abbondanti tracce nelle tavolette da fiuto, tubi inalatori e altri parafernali incontrati principalmente nelle sepolture, a volte ancora indossati dalle mummie andine; in alcuni casi si sono conservati campioni delle polveri, in cui sono stati individuati i principi attivi (alcaloidi triptaminici) (si veda Il complesso inalatorio andino). Vanno qui ricordate anche le ricerche sul campo e in laboratorio dell’équipe di Ettore Biocca, che approfondirono le conoscenze sulla polvere dell’épena impiegata nell’Alto Orinoco (Biocca, 1965; Marini-Bettolo et al., 1964a,b, 1965).

Per quanto riguarda le altre regioni del mondo, studi pionieristici sono stati quelli di Jacques Barrau (1958, 1962) svolti nella Nuova Guinea, e quelli di Li (1977) per la Cina, e recentemente sono iniziati studi specifici per l’Australia (Bock, 2002-03) e per il Sud Africa (Sobiecki, 2008).

Oggigiorno esistono approfonditi lavori enciclopedici sull’etnobotanica delle piante psicoattive, fra cui ricordo Botanica e chimica degli allucinogeni di Richard E. Schultes e Albert Hofmann (1983), Pharmaotheon di Jonathan Ott (1996), Enzyklopädie der psychoaktiven Pflanzen del tedesco Christian Rätsch (1998), Garden of Eden dell’australiano Snu Voogelbreinder (2009).

A più riprese e in disparati ambiti d’indagine studiosi italiani hanno contribuito allo studio dell’etnobotanica delle piante inebrianti (si veda la Bibliografia italiana sugli allucinogeni e cannabis). Oltre al già citato Mantegazza, e alla più recente équipe di ricerca diretta da Ettore Biocca, ricordo gli studi negli anni ‘1990 di Francesco Festi (ad es. Festi & Aliotta, 1989), botanico del Museo Civico di Rovereto, diversi dei quali sviluppati insieme al sottoscritto, e quelli del chimico piemontese Gianluca Toro (2005, 2014, 2017).

 

Si vedano anche:

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