Il sacrificio della capacocha

The capacocha Incaic sacrifice

 

I cronisti europei del periodo della Conquista spagnola del Sud America riportarono l’esistenza fra gli Inca di riti apotropaici e sacrificali noti con il termine capacocha. Recenti studi sulle fonti scritte coloniali hanno chiarito come con questo nome venissero designati due tipi differenti di cerimonie; una riguardava processioni rituali con sacrificio di bambini; l’altra riguardava una cerimonia della costa centrale che si realizzava con del sangue liquido che veniva trasportato in processione lungo un determinato tragitto.

V’è discordanza fra gli studiosi circa l’etimologia del termine capacocha e la sua identificazione o meno con parole affini. Per Schobinger (1998, p. 389) capacocha corrisponderebbe più correttamente con capac hucha, che significherebbe “sacrificio del sovrano”, o “affare del sovrano” (McCormack & Arbor, 2000, p. 132). Ma per Rostworowski (2003, p. 106-7) i termini capacocha e capac hucha non sono sinonimi. Il primo è costituito dalle due parole capac, con il significato di re o signore di alto grado, e cocha, che designa il mare o la laguna. Riguardo il termine capac hucha, dato che hucha significa peccato, gran peccato, peccato importante, colpa, “obbligazione rituale omessa”, questo termine non avrebbe potuto designare i sacrifici della capacocha, dato che questo tipo di sacrifici umani non potevano essere considerati un crimine, svolgendo funzioni accettate socialmente.

La capacocha della costa

Nel documento catalogato come Justicia 413, pubblicato nel 1558 e conservato presso l’Archivo General de Indias di Siviglia, è riportata una disputa del primo periodo coloniale fra due comunità rurali – Quibi e Chacalla – della valle peruviana di Chillón, dove l’oggetto della contesa era un campo coltivato a piante di coca. Un anziano, che si ricordava le origini della disputa ai tempi incaici, la spiegò con queste parole, offrendo importanti dati sul rito della capacocha della costa:

Ai tempi di Tupa Inca Yupanqui e al tempo di suo figlio Guayna Capac, c’era una processione, chiamata capacocha, in cui camminava un nobile inca portando nella sua mano un vaso d’argilla contenente il sangue di lama e conchiglie di mare polverizzate e altre cose, e lo seguivano molti indiani dal villaggio dove la capacocha era partita quel giorno, ed essi spargevano il sangue sulle colline mentre pregavano alla guaca (divinità locale) per dare una buona salute a Tupa Inca e affinché fosse un grande signore e conquistatore in molte battaglie, e che la guaca desse buona salute al figlio dell’Inca e altre cose per le quali erano soliti pregare, ed entravano nei campi dicendo “dai la strada, dai la strada, capacocha, capacocha, non versare il sangue”, e se qualche indiano correva nella processione e versava una goccia del sangue, allora, nel preciso luogo dove l’aveva versato, essi uccidevano l’indiano e lo seppellivano li, e questo veniva fatto come costume regolare e veniva osservato, proprio come ora si osservano le leggi cristiane.
Ovunque essi si fermavano con la capacocha, segnavano come confine ogni luogo che avevano attraversato, in modo che diventasse dell’indiano che portava la capacoha nella sua mano, ed egli, quando si fermavano diceva: “La mia capacocha ha raggiunto finora questo punto”, in modo che il capitano inca che li stava accompagnando marcasse il confine.
Ai tempi di Tupa Inca Yupanqui, il primo degli Inca che governò da queste parti, gli indiani di Chacalla entrarono nei territori di Quibi con i nobili dell’Inca e poi entrarono due volte al tempo di Guayna Capac, e portarono la capacocha e ogni giorno guadagnavano e sequestravano sempre più di queste terre” (Rostworowski, 1988, fols. 236v-237v).

Rostworowski (2003, p. 113) si chiede se il sangue trasportato non fosse umano, invece che animale, e che ciò fosse mantenuto segreto dagli informatori nativi che comunicavano con gli spagnoli. Inoltre, la studiosa ha evidenziato le analogie di questo rito costiero eseguito con il sangue con i sacrifici con sangue degli antichi Moche, domandandosi su come venisse risolto il problema della coagulazione del sangue. Una soluzione potrebbe trovarsi in un frutto frequentemente rappresentato nelle scene di sacrificio di sangue nella ceramica Moche, chiamato a quei tempi ulluchu, e che Wassén (1989) propose di identificare con la Carica candicans Grey, della famiglia delle Caricaceae, chiamato popolarmente oggigiorno mito. Il succo di questo frutto avrebbe proprietà anticoagulanti, e ciò spiegherebbe la sua associazione con i riti di sangue.
Tuttavia, è il caso di considerare quanto riportatomi dal prof. Giampiero Cortis, tossicologo forense direttore del Laboratorio di Tossicologia Forense dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Cagliari, e cioè che in caso di morte violenta il sangue umano non coagula. Pur non essendo ancora chiarito del tutto il motivo per cui ciò avvenga, ed essendo poco noto anche nell’ambiente medico, è un dato assodato nei professionisti della medicina forense, i quali, in caso di morte violenta quale un assassinio o un incidente stradale, non devono apporre anticoagulanti nel sangue che devono sottoporre alle loro analisi. Sempre secondo il prof. Cortis, è possibile che tale fenomeno accada anche negli altri animali a sangue caldo, mammiferi e uccelli.
In base a questa acquisizione, il problema di come evitare la coagulazione del sangue in caso di sacrifici cruenti, umani e forse anche animali, dunque non sussiste.

Nella discussione all’Udienza di Lima che analizzò la disputa, la capacocha veniva descritta come “un certo tipo di rogazione”, sebbene, come si intuisce dal brano sopra riportato, il motivo di questa processione non fosse solamente per pregare per la salute dell’Inca, bensì per creare un sistema di diritti di accesso ai vari territori (MacCormack & Arbor, 2000, pp. 111-112).

Da altri documenti si viene a sapere che, quando passava una processione della capacocha, la gente doveva nascondersi nelle proprie case, ed era vietato alzare gli occhi e osservare la processione, e se qualcuno fosse stato colto sulla via della processione, veniva immediatamente ucciso (MacCormack & Arbor, 2000, p. 122).

La capacocha con sacrifici umani

I riti della capacocha che prevedevano sacrifici umani, in particolare bambini, venivano svolti in occasione di terremoti o eruzioni vulcaniche, epidemie, eclissi solari, o quando moriva un sovrano. Si svolgevano anche durante le grandi festività annuali, quali l’Inti-Raymi, la festa del solstizio d’inverno, e il Capac-Raymi, la festa del solstizio d’estate. Anche il dominio su un nuovo territorio veniva inaugurato con una capacocha.

Nella capacocha con sacrificio umano, i prescelti per il sacrificio – generalmente bambini d’età inferiore ai 12 anni – partivano da tutte le aree dell’impero e raggiungevano Cuzco per essere presentati all’Inca. Dopodiché venivano ridistribuiti per le destinazioni finali, e di frequente venivano sacrificati sui picchi montuosi delle Ande (ma è stata ritrovata documentazione anche a più bassa quota, ad esempio nella valle di Cuzco, cfr. Gibaja Oviedo et al., 2014). Ciò spiegherebbe quei dettagli che li connotano come “viaggiatori d’alta quota”, inclusa la chuspa di foglie di coca (si veda Archeologia della coca) con cui venivano interrati, che è un oggetto tipico dei camminatori delle alte quote montane. Le vittime erano scelte come offerta per il mondo degli dei o come “messaggeri per l’aldilà”.

Nei tempi pre-incaici era già sviluppata una venerazione dei picchi montani, in particolare quelli vulcanici. Gli Inca rielaborano e “imperializzarono” queste pratiche, integrandole nel loro culto solare. Non è chiaro se nel culto ai monti pre-incaico fosse già incluso il sacrificio umano (Schobinger, 1998, pp. 390-391).

Cristóbal de Molina de Cuzco, nella sua Relación de las fábulas y ritos de los Incas del 1575, riportava che quando veniva celebrata una capacocha, si mettevano in cammino delegazioni da tutte le provincie dell’impero con diverse offerte. Una volta giunti alla piazza centrale di Cuzco, i prescelti per i sacrifici dovevano circondare gli idoli incaici alla presenza dell’Inca, un atto mediante il quale tutte le offerte acquisivano un’aura sacra. La pratica di inviare da parte dell’Inca le persone da essere sacrificate nelle varie regioni del suo regno, è stata riportata dai cronisti, quali Bernabé Cobo e Juan de Betanzos (Mignone, 2010, pp. 57-8).

Un certo Alonso Tito Atauchi, di Cuzco, un nipote dell’Inca Guayna Capac, riferì agli Spagnoli che il rito della capacocha era stato istituito durante la conquista incaica di Collasuyu, e che non sarebbe stata possibile in altro modo (MacCormack & Arbor, 2000, p. 121). Questo rito sarebbe stato adottato dagli inca dagli “indios del Collao” (Levillier, 1940).

Cobo e Pizarro riportarono che i bambini da sacrificare nella capacocha venivano reclutati fra i figli dei signori locali di etnia non inca, o fra le acllas, giovani ragazze destinate a queste cerimonie (Mignone, 2009, p. 57). Le acllas vivevano sin da giovane età nei monasteri istituzionali noti come Acllahuasis, e all’età di 14 anni avrebbero incontrato il loro destino o come mogli della nobiltà inca, o consacrate nei templi come vergini, o sacrificate nelle capacocha (Acosta, Historia natural y moral de las Indias, V, 15).

Una funzione importante dei riti della capacocha riguardava la conversione dei sacrificati in oracoli, che venivano in seguito consultati dai fedeli al culto, e uno degli scopi della capacocha era quello di sigillare un’alleanza fra i curaca – i capi locali amministrativi e politici delle famiglie allargate (lignaggi) note come ayllu (Gentile, 1996, p. 52).
Si hanno notizie di un curaca, tale Caque Poma, di Ocros, della provincia di Cajatambo, il quale offrì sua figlia per il sacrificio della capacocha, per ottenere l’aiuto dell’Inca per la costruzione di un canale di irrigazione. La figlia fu portata a Cuzco, dove fu “benedetta” dall’Inca, il quale le impose il nome di Tanta Carhua, e fu quindi riportata nel suo paese per essere sacrificata (MacCormack & Arbor, 2000, pp. 125-6). Fu seppellita viva con le sue offerte in un monte che segnava il limite delle terre dell’Inca, mentre la sua famiglia si prese carico dell’oracolo originato dal suo sacrificio (Gentile, 1996, p. 52). I numerosi fratelli di Tanta Carhuya si convertirono, uno a uno, nei sacerdoti del culto oracolare, e parrebbe che dalla tomba della bambina sacrificatala fuoriuscisse una voce di bimba che emetteva risposte alle domande dei devoti. E’ per questo che i nobili locali ci tenevano a sacrificare le proprie figlie al rito della capacocha, poiché ne ricavavano dei vantaggi sia materiali che di prestigio (Rostworowski, 2003, p. 109).

Il rito della capacocha è stato generalmente interpretato con funzioni di consolidamento del potere politico incaico, ma questa visione è stata criticata come una traslazione della visione occidentale dei meccanismi di gestione del potere nell’impero centralizzato. In realtà un insieme di dati, anche archeologici, evidenziano una grande variabilità costruttiva e di artefatti associati ai riti della capacocha, tale da escludere una forte centralità nel loro sviluppo. Anche la scarsezza della presenza statale incaica nei siti di alta montagna dove venivano consumati i sacrifici delle capacocha rivelano una bassa influenza del potere centrale, facendo invece sospettare un maggior ruolo delle comunità locali pastorali (Mignone, 2009).
Nel 1620, Hernández Príncipe documentò che dopo un secolo dalla conquista spagnola dell’impero incaico, i bambini sacrificati nelle capacocha e le loro tombe continuavano a essere ricordati e venerati dai loro ayllu (Schroedl, 2008, p. 24).

La documentazione archeologica

I riti sacrificali delle capacocha hanno trovato conferma nella scoperta di diverse inumazioni di alta quota, alcune delle quali sono accadute in modo fortuito per opera di scalatori andinisti. La maggior parte dei corpi appartengono a bambini e bambine e sono state ritrovate allo stato mummificato, per via del clima rigido delle alte quote che ne ha conservato il corpo. I corpi sono stati trovati per lo più intatti, in posizione seduta, con le gambe incrociate, la testa inclinata, come se stessero dormendo (per una review, cfr. Scanu, 1986-87 e Reinhard, 2005).

Questi sacrifici di alta montagna si trovano associati a ramificazioni alte della rete di strade inca nota come “cammino reale”, in particolare nel luogo dove un sentiero trasversale metteva in comunicazione entrambi i versanti della cordigliera. Sappiamo che questa rete di cammini inca si sviluppò per oltre 2000 km a partire dal sud del Peru sino al centro del Cile e l’ovest dell’Argentina.

Fra il corredo funebre delle inumazioni di alta quota sono state trovate delle caratteristiche statuine di uomini e di lama, intese come possibili accompagnanti del sacrificato nel suo viaggio nell’aldilà, che portavano piccole chuspa di coca e mostravano il rigonfiamento della mascella indicativo del bolo di foglie di coca. In diversi siti di alta quota sono state ritrovate statuine interrate, e non i resti di sacrifici umani, e sono probabilmente da intendere come “sacrifici sostituitivi” (Schobinger, 1998, p. 391).

La “chica de Llulliaillaco”, mummia andina peruviana di una bambina di 13-15 anni, 1500 d.C. In bocca tiene ancora un bolo di foglie di coca

La “chica de Llulliaillaco”, mummia andina peruviana di una bambina di 13-15 anni, 1500 d.C. In bocca tiene ancora un bolo di foglie di coca

Uno dei ritrovamenti più noti e più sorprendenti è quello del complesso sepolcrale presente a quota 6715 m sul vulcano Llulliaillaco, al confine fra Cile e Argentina, e che risulta essere la struttura archeologica più elevata nel mondo. Il complesso cerimoniale conta numerosi siti connessi fra di loro da un sentiero che ascende verso la sommità del vulcano, con un accampamento-base e stazioni intermedie erette a 5600 e 6300 m. Le mummie di una giovane donna, di una bambina e di un bambino sono state trovate insieme a oltre 100 reperti materiali (Reinhard & Ceruti, 2000). La mummia del bambino di 7 anni era seppellita a una profondità di 1,2 m, in una buca costruita allargando una nicchia naturale fra le rocce. Fra il corredo funebre v’era un ariballo contenente della chicha (bevanda alcolica a base di mais o manioca). La bambina di 6 anni fu seppellita a una profondità di 1,75 m, e il terzo corpo riguardava una ragazza di 15 anni d’età. Tutti i tre corpi non mostrano segni di morte violenta, e presumibilmente questi giovani furono sepolti vivi (Ceruti, 2004, pp. 108-112).

Alcune statuine vestite trovate fra gli oggetti associati alle mummie di Llulliaillaco (da Mignone, 2009, fig. 3, p. 63).

Alcune statuine vestite trovate fra gli oggetti associati alle mummie di Llulliaillaco (da Mignone, 2009, fig. 3, p. 63).

Un altro ritrovamento è avvenuto nel 1954 a quota 5400 m sul Cerro el Plomo, un picco montuoso a 45 km da Santiago, sul versante occidentale cileno della catena andina. La mummia di un bambino di 8-9 anni, noto come il “Principe di El Plomo” era interrato in un buco profondo 1 m, insieme a statuine umane e di lama, in oro, argento e conchiglia, frammenti tessili e ceramiche, e a due chuspa che contenevano foglie di coca; altre piccole borse contenevano capelli, unghie e denti di latte appartenenti molto probabilmente al bambino sacrificato (Mostny, 1955; si veda anche Naville, 1955). La mummia fu trovata intatta, interrata in un pozzo tappato da una lastra di pietra. Parrebbe fosse stata interrata viva dopo essere stata drogata, come dimostrerebbero il vomito riversato dalla bocca e l’espressione facciale pacifica. Il vestito che portava indosso indicherebbe che proveniva dall’altipiano del Cile settentrionale o della Bolivia del sud, il che significa che il bambino percorse 2000 km per raggiungere il luogo del sacrificio (Horne & Kawasaki, 1984).

Una mummia di un infante di 5-6 anni è stata ritrovata sul Cerro Chañi, sul bordo orientale della Puna de Jujuy, in Argentina, a 5896 m d’altitudine, insieme a tessuti, un pettine di canna, una chuspa con coca decorata con piume, un paio di sandali, e altro materiale. Non è stato possibile determinare il sesso della mummia (Millán de Palavecino, 1966). Nel luogo del ritrovamento è stata osservata la presenza di numerose strutture, tipo piattaforme, e sono state individuate stazioni intermedie e un accampamento base, con un sentiero che li unisce, e tutto ciò fa pensare a un riutilizzo periodico del complesso cerimoniale, come fosse stato un centro di pellegrinaggio (Ceruti, 2001).

Un altro interessante ritrovamento riguarda la cosiddetta “Juanita”, una mummia peruviana venuta alla luce a quota 6310 m sul vulcano Coropuna. Fra gli oggetti del corredo funebre sono state ritrovate tre statuine vestite. Questa mummia era accompagnata da un secondo corpo femminile e da resti ossei di un probabile uomo, forse sacrificato in qualità di accompagnante o guardiano. Le due mummie femminili corrispondono a ragazze di 14 anni d’età. La seconda mummia era accompagnata da statuine, pezzi di ceramica intere e altre frammentate intenzionalmente, bicchieri e cassette di legno, sandali e altro ancora. La prima mummia, la “Juanita”, era avvolta in una grande quantità di tessuti; la seconda era stata interrata e vestita solamente con i suoi vestiti. E’ stato suggerito che si trattasse di acllas, le “vergini del sole” (Schobinger, 1998, pp. 385-6).

La “Juanita”, mummia di una ragazza ritrovata sul vulcano Coropuna, Peru

Fra i resti di un altro sacrificio umano del Nevado Pichu-Pichu, nella regione peruviana di Arequipa, sono stati ritrovati due boli di coca masticata e un mazzo di spine di cactus. Il corpo riguardava una donna di 15-18 anni d’età, ed era accompagnato da statuine, un braccialetto d’oro e d’argento, e varie ceramiche (Linares Málaga, 1966).

Il momento del ritrovamento del corpo mummificato del bimbo di 8 anni sul Cerro de Aconcagua, avvenuto l'8 gennaio del 1985 (da Schobinger, 1998, fig. 12, p. 376)

Il momento del ritrovamento del corpo mummificato del bimbo di 8 anni sul Cerro de Aconcagua, avvenuto l’8 gennaio del 1985 (da Schobinger, 1998, fig. 12, p. 376)

Nel 1985 fu ritrovato accidentalmente da alcuni scalatori il corpo mummificato di un bimbo di 7-8 anni dentro a una struttura di sassi protetta a quota 5300 sul Cerro de Aconcagua (cerro Pirámide). Il bimbo fu probabilmente ucciso con un colpo in testa. Era avvolto da numerosi tessuti, e il più esterno era un manto totalmente incastonato con piume gialle di pappagallo; aveva anche un pennacchio fatto di piume gialle e nere. Nella mano destra sembra tenesse foglie di coca. Fra gli oggetti associati all’inumazione erano presenti tre figurine umane fatte di oro, argento e spondylus (una conchiglia), una figurina d’argento di camelide, una chuspa con foglie di coca. Le tre figurine portavano piccole chuspa, ma solo quella d’oro portava nella chuspa foglie di coca, e la figurina d’oro e quella d’argento riportano sulla mascella sinistra il rigonfiamento indicante l’acullico (bolo) di coca nella bocca (Gentile, 1996, p. 74). Sulla pelle è stata individuato un pigmento rosso, e anche nel vomito e nelle feci. E’ possibile che il bambino, prima di essere sacrificato, sia stato obbligato a bere una bevanda di achiote (Bixa orellana) (Schobinger, 1998, pp. 379-382). Anche le viscere contenevano una sostanza rossa, probabilmente la bevanda di achiote, che parrebbe essere stata l’ultima cosa che ingerì, dopo un digiuno di almeno un giorno (Gentile, 1996, p. 46).

Oggetti ritrovati nella sepoltura della mummia di Aconcagua. L'oggetto 9 è la chuspa contenete foglie di coca (da Schobinger, 1998, fig. 14, p. 377).

Oggetti ritrovati nella sepoltura della mummia di Aconcagua. L’oggetto 9 è la chuspa contenete foglie di coca (da Schobinger, 1998, fig. 14, p. 377).

Sul Cerro Esmeralda (Cile, Regione I, Iquique), a quota 905 m, furono ritrovati casualmente nel corso di lavori stradali due corpi interrati a 3,5 m di profondità: una bimba di 9 anni e una ragazza di 18-20 anni. Erano vestite in maniera differente, evidenziando due condizioni sociali distinte. Fra gli oggetti associati all’inumazione, oltre a diversa ceramica, furono incontrati frammenti di un probabile tubo inalatorio, llipta (calce per la coca), e ben 10 chuspa di coca, di cui 4 ricolme di foglie di coca fino al bordo e con le foglie ben pressate. I due corpi sono stati datati al 1450-1500 d.C., e parrebbe che le giovani donne fossero state strangolate; la ragazza apparteneva a una classe sociale alta, e la bambina era verosimilmente la sua serva (Checura, 1977).

La capacocha e le droghe

Come si è visto nella descrizione dei ritrovamenti archeologici, di frequente le inumazioni dei giovani sacrificati nei riti delle capacocha di alta quota sono accompagnate da chuspa di foglie di coca, e in diversi casi venivano drogati nei mesi precedenti il sacrificio con coca e alcol.

Studi radiografici eseguiti sulla mummia di Llulliaillaco che evidenziano il bolo di coca tenuto nella bocca (da Wilson et al., 2013, fig. 4, p. 13325)

Studi radiografici eseguiti sulla mummia di Llulliaillaco che evidenziano il bolo di coca tenuto nella bocca (da Wilson et al., 2013, fig. 4, p. 13325)

Un interessante risultato riguarda l’analisi del capello eseguito sui tre bimbi ritrovati sul monte Llulliaillaco. Queste mummie sono state datate attorno al 1500 d.C. Una di esse, corrispondente alla ragazzina di 13-15 anni, teneva nella bocca e fra le labbra delle foglie di coca. Dall’analisi segmentale del capello è stato evidenziato un picco dell’assunzione della cocaina 6 mesi prima di essere immolata, mentre la presenza dei metaboliti dell’alcol aumentava notevolmente nelle ultime settimane di vita. L’altro bambino e l’altra bambina, di 4-5 anni d’età, hanno evidenziato un’assunzione sia di cocaina che di alcol, ma in quantità inferiori rispetto a quelle della ragazzina. Un dato interessante consiste nel fatto che, oltre a cocaina, benzoilecgonina ed ecgonina metilestere, nei capelli è stata riscontrata la presenza di cocaetilene, un metabolita prodotto dal fegato e che si forma unicamente attraverso l’assunzione contemporanea della cocaina e dell’alcol nel corpo umano (Brown, 2012, p. 113; Wilson et al., 2013).

Si vedano anche:

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CERUTI MARÍA COSTANZA, 2001, La capacocha del Nevado de Chañi. Una aproximación preliminar desde la arqueología, Chungara, vol. 33, pp. 279-282.

CERUTI MARÍA COSTANZA, 2004, Human bodies as objects of dedication at Inca mountains shrines (North-Western Argentina, World Archaeology, vol. 36, pp. 103-122.

CHECURA JORGE, 1977, Funebria incaica en el cerro Esmeralda, Iquique, I región, Estudios Atacameños, vol. 5, pp. 127-144.

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HORNE D. PATRICK & SILVIA QUEVEDO KAWASAKI, 1984, The Prince of El Plomo. A palaeophathological study, Bullettin of the New York Academy of Medicine, vol. 60, pp. 925-931.

LINARES MÁLAGA ELOY, 1966, Restos arqueológicos en el Nevado Pichu-Pichu (Arequipa, Perú), Anales de Arqueológia y Etnología, vol. 21, pp. 7-47.

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