Distillatori arcaici updated: 2018-09-04T17:13:44+01:00 by giorgio
Arcaic stills
Nella letteratura del XX secolo v’è una tendenza a considerare le tecniche di distillazione come una conquista della nostra era, ritenendo che i primi a scoprirle fossero stati i Greci residenti ad Alessandria d’Egitto agli inizi dell’era cristiana, e la tecnica di distillazione del vino, per ricavare una bevanda con maggior concentrazione di alcol, si sarebbe diffusa in Europa solamente attorno al XII secolo d.C.1 Ma gli studiosi del XIX secolo non erano di questo parere, come si può evincere dagli scritti, ad esempio, di Morewood (1824) e di Fairley (1907), e diversi reperti archeologici ritrovati in disparate aree geografiche parrebbero dimostrare la grande antichità della pratica della distillazione.
In diversi casi non è possibile determinare lo scopo d’impiego di queste antiche apparecchiature, se per produrre bevande superalcoliche, essenze o profumi, e se per scopi inebrianti, magici, medicinali o cosmetici. E’ del resto probabile la precedenza cronologica della distillazione alcolica su quella per ottenere essenze e profumi, per via dell’osservazione empirica della fiamma che sprigiona dal vapore condensato delle bevande alcoliche poste sul fuoco, e che avrà attratto l’attenzione sul vapore sprigionato dai liquidi caldi (Samorini, 2017). Per questo medesimo motivo si può supporre che laddove siano presenti distillatori per la produzione di essenze e profumi, erano già note le tecniche di concentrazione dell’alcol. E’ il caso di ricordare che per distillare liquidi alcolici, con lo scopo di aumentare la gradazione alcolica, la migliore tecnica è quella di riscaldare il liquido alla temperatura di ebollizione dell’alcol (78.4 °C), senza raggiungere la temperatura di ebollizione dell’acqua (100 e oltre °C), in modo tale da indurre una separazione dei due elementi alcol e acqua.
Il distillatore è costituito da tre parti funzionali: il bacino dove si porta ad ebollizione il liquido madre per far produrre il vapore, una camera di condensazione dove il vapore si ritrasforma in liquido (che è il distillato), e un raccoglitore del distillato.
Nei primissimi strumenti le tre funzioni della distillazione – ebollizione, condensazione, raccolta – si sviluppavano in un medesimo corpo costituito da due o tre recipienti. E’ possibile osservare questo accorpamento delle tre funzioni nei più antichi distillatori sino ad oggi noti, di cui il più antico in assoluto è venuto alla luce in Slovacchia ed è datato al 4000 a.C. Si tratta di alcuni frammenti di ceramica appartenenti al gruppo culturale Lužani, incontrati nel sito di Abrahám; reperti simili sono venuti alla luce nei siti slovacchi di Vrbové e di Šurany-Nitriansky Hrádok, con una datazione al 3000 a.C., e nella famosa città anatolica di Troia (strato V) del 2000 a.C. Se la ricostruzione è corretta, questi frammenti potrebbero essere appartenuti a degli apparati costituiti da tre pezzi mobili, equivalenti nella loro funzione ai moderni estrattori a riflusso, dove il vapore prodotto dal riscaldamento del liquido madre si condensa sulla superficie delle pareti superiori, e le goccioline di condensato ricadono in buona parte su un collettore anulare collocato in posizione intermedia, mentre le altre ricadono nel bacino inferiore (Ryšánek, 1993). I distillatori e i separatori che si basano su questo meccanismo possono essere definiti “estrattori ad anello di recupero”.
Analogia fra la ricostruzione del separatore di Troia V del 2000 a.C. con un moderno separatore a riflusso (da: Ryšánek, 1993, fig. 6, p. 13)
Apparecchi simili e in maniera meno frammentaria ci sono pervenuti dalla Mesopotamia, appartengono al periodo di Uruk e datano al 3500 a.C. Sono diversi oggetti in ceramica venuti alla luce nel sito di Tepe Gawra, nel nord dell’Iraq (Tobler, 1950, figg. 346 e 405-407). Sono costituiti da un contenitore dalla forma conica, dotato nella parte superiore di una specie di collettore circondante l’orlo (“anello di recupero”), e da un coperchio profondo quasi quanto il contenitore, sulla cui superficie interna il vapore si condensava e le gocce di condensazione rifluivano nel collettore. Nei medesimi contesti archeologici di Tepe Gawra sono stati trovati altri apparati di ceramica, molto simili a quelli ad anello di recupero per la distillazione, ma con l’aggiunta di forellini nella parte inferiore del bordo interno dell’anello, e che sono stati interpretati come apparati per l’estrazione a riflusso continuo e per la separazione della fase oleosa da quella acquosa, atti dunque alla produzione di essenze e profumi. E’ plausibile ritenere la presenza dei forellini all’interno del doppio bordo come distintivo di strumenti per la separazione, quindi per l’elaborazione di essenze e profumi, mentre la loro assenza indicherebbe strumenti per la distillazione di bevande alcoliche. In Mesopotamia, i Sumeri avevano dunque già conquistato le tecnologie per l’elaborazione di bevande ardenti e di essenze e profumi. Ed è sempre in Mesopotamia che, un paio di millenni dopo, in un gruppo di tavolette accadiche datate al 1200 a.C. si ritrovano fra le prime documentazioni scritte delle operazioni di profumeria, con l’esplicito riferimento all’isolamento della fase oleosa da quella acquosa (Levey, 1955).
Un distillatore ad anello di recupero molto simile a quelli mesopotamici è stato ritrovato nel sito slovacco di Spišsky Štvrtok ed è datato al 1500 a.C., quindi nella medesima area geografica dove sono venuti alla luce i frammenti di separatore del 4000-3000 a.C. riportati poco sopra. In questo caso l’anello di recupero è dotato di una bocca d’uscita del liquido distillato, il quale veniva raccolto in un recipiente esterno all’apparato; di questo apparato si è conservato solamente una parte del recipiente e non quella del coperchio (Ryšánek & Václavû, 1989; per una foto a colori dell’oggetto si veda Schlosser, 2011, fig. 2, p. 2).
Ricostruzione grafica dei più antichi distillatori: (sx) Tepe Gawra, Iraq, periodo Uruk, 3500 a.C., altezza del coperchio 48 cm.; (dx) Spišsky Štvrtok, Slovacchia, 1500 a.C., altezza del coperchio 35 cm. (da Ryšánek & Václavû, 1989, figg. 5 e 3, pp. 200 e 199)
Recentemente, l’archeologo John Bartholomew (2015) ha costruito una copia dell’apparato slovacco, impiegandola come distillatore e ottenendo un distillato alcolico di buona qualità, dimostrando con ciò la sua funzionalità come apparato per concentrare il grado alcolico del vino. Il medesimo studioso, specializzato in archeologia sperimentale, ha evidenziato come un’enigmatica ceramica ritrovata nell’antica capitale degli Hittiti – Hattusa – e datata agli inizi del II millennio a.C., in forma di teiera ma con una particolare struttura interna a doppia parete, potrebbe avere svolto la funzione di condensatore di vapore e raccoglitore del distillato, che veniva in seguito direttamente versato come avviene con una comune teiera.
Ceramica ittita degli inizi del II millennio a.C. interpretato come possibile condensatore e raccoglitore di vapori alcolici (da Bartholomew, 2015)
Ceramiche simili sono venute alla luce in Sardegna, negli scavi della cultura nuragica del II millennio a.C., e anche in questo caso sono presenti le due tipologie riscontrate in Mesopotamia, cioè quella ad anello di recupero, adatta alla distillazione dell’alcol, e quella ad anello con fori, adatta alla separazione di essenze. La prima è venuta alla luce nel Nuraghe Nastasi (Tertenia, Nuoro, XIV-XIII secolo a.C.), e la seconda nella cosiddetta “capanna delle riunioni” del villaggio nuragico La Prisgiona (Arzachena). Per entrambi i casi sono state trovate solamente le parti inferiori delle apparecchiature, sebbene a La Prisgiona sia stata ritrovata a poca distanza dal separatore una ceramica la cui forma ha fatto sospettare che facesse parte della parte superiore mancante (Antona et al., 2010, pp. 1728-30).
Parti inferiori di distillatori sardi ad anello di recupero, metà del II millennio a.C.: (sx) dal Nuraghe Nastasi, Tertenia (Nuoro) (da Lilliu, 1999, fig. 89, p. 91); (dx) dalla “capanna delle riunioni” del villaggio nuragico La Prisgiona, località Capichera (Arzachena); alt. 50 cm (da Antona et al., 2010, fig. 14, p. 1728)
Parte inferiore di un distillatore ad anello di recupero dalla tomba 104, n. 207, di Paphos Teratsoudhia, Cipro, 1400-1500 a.C., Museo di Kouklia, Paphos (da: Karageorghis, 1990, tav. XXIX, p. 207)
Anche a Cipro è venuta alla luce la parte inferiore di un distillatore ad anello di recupero fra il corredo funebre della tomba 104 di Palaeopaphos Teratsoudhia, con datazione al 1400-1500 a.C. L’oggetto è un vassoio tripode di ceramica in cui l’anello di recupero è dotato di un vistoso becco, collocato lontano dalle gambe in maniera tale da permettere il travaso del distillato in un altro recipiente (Karageorghis, 1990, p. 66 e tav. XXIX, p. 207). Un frammento di un apparente apparato ad anello di recupero è venuto alla luce negli scavi di Tirinto, in Argolide (Grecia) sempre con datazione attorno alla metà del II millennio a.C. (Karageorghis, 1990, p. 67).
Numerosi apparati ad anello di recupero sono venuti alla luce dagli scavi di facies culturali più tarde, ma non sempre sono riconosciuti come apparati per la distillazione (quando senza fori) o per la separazione (quando dotati di fori). Gli oggetti di questo tipo dei periodi romani sono spesso rientrati in maniera acritica nella categoria funzionale di “bollitori per il latte”, proposta nel 1952 da Gustav Behrens (1952a). Frammenti di questo tipo di separatori, con anello di recupero dotato di fori, datati al I secolo d.C., quindi all’età imperiale romana, sono venuti alla luce negli scavi di Corinto (Slane, 1986, p. 287, e fig. 10.57 e tav. 64.57), e separatori più completi, definiti come “vasi per il culto”, sempre del medesimo periodo e cultura imperiale romana, nella regione tedesca di Mainz (Behrens, 1952b). Tuttavia, una recente rivisitazione di questi vasi ha escluso che potessero essere impiegati né come bollitori per il latte né come distillatori, in quanto sono dotati di una verniciatura sia all’interno che all’esterno, tale da escludere il fatto che venissero posti sul fuoco. Del resto, non sono state trovate tracce di esposizione al fuoco (Puppo, 2018).
Un passo successivo nel percorso evolutivo della tecnologia della distillazione fu quello di separare dall’apparato atto alla vaporizzazione del liquido madre gli altri due processi della condensazione del vapore e della raccolta del condensato, e furono quindi ideati i distillatori a doppio corpo. I più antichi distillatori di questo tipo sono venuti alla luce nel corso degli scavi di Pyrgos, nell’isola di Cipro, dove è stato scoperto una vero e proprio laboratorio-officina per la produzione di profumi datato attorno al 1800 a.C., e il cui soffitto era crollato coprendo (e conservando) tutto quanto. Fra le ceramiche del laboratorio erano presenti numerosi imbuti e due alambicchi per distillazione a doppio corpo con il collettore per il trasporto del vapore nella camera di condensazione, molto simili agli alambicchi medievali. Non è chiaro cosa venisse distillato nel laboratorio di Pyrgos, se essenze o liquori, ma la possibilità che vi venissero ricavati anche liquidi ad elevata concentrazione di alcol sarebbe suffragata dal fatto che i due distillatori sono stati ritrovati vicini a una giara per vino e che numerosi semi d’uva erano sparsi sul terreno (Belgiorno, 2014, 2017). Come ha fatto notare la Belgiorno (2014, p. 228), l’archeologa che ha scavato l’officina di Pyrgos, gli alambicchi si sono “salvati”, pur ridotti in mille pezzi, grazie al crollo dell’officina. Altrimenti, se il contesto non fosse stato integro, se fossero giunti solo dei frammenti di ceramiche non collegabili fra di loro, i due apparati distillatori non sarebbero stati identificati. Ed è in questa considerazione che risiede un plausibile motivo della rarità di ritrovamento di apparati distillatori fra i reperti archeologici, dovuta non tanto alla rarità della pratica della distillazione, quanto alla difficoltà di individuarli partendo da isolati frammenti di ceramica, parallelamente alla tendenza a non cercarli nei contesti antichi, precristiani, una tendenza causata dall’errato luogo comune che la distillazione sia una conquista tecnologica recente.
Anche in Pakistan, nel sito di Taxila, sono stati ritrovati resti di ciò che appaiono essere elementi di un apparato per distillazione che ricorda l’alambicco dei periodi medievali europei. Questi reperti sono datati al 150 a.C. (Allchin, 1979). Resti di simili apparecchiature sono state ritrovate in India in cinque differenti siti archeologici datati fra il 300 a.C. e il 200 d.C. (Mahdihassan, 1972, 1979). Uno dei distillatori di Taxila, datato al 300 a.C., inizialmente interpretato come distillatore per l’acqua, è stato in seguito riconsiderato come un distillatore per l’alcol (Mahdihassan, 1979, p. 264).
Ricostruzioni dei distillatori pakistani, III-II secolo a.C.: a) a un corpo, da Taxila (Mahdihassan, 1979, fig. 3, p. 264); b) a due corpi, da Shaikhān Dherī (Allchin, 1979, fig. 9, p. 773)
Uno dei sigilli presenti sui condensatori dei distillatori di Shaikhān Dherī, Pakistan (Allchin, 1979, fig. 2.1, p. 759)
Sempre in Pakistan, nel sito di Shaikhān Dheri, situato nella valle di Peshawar, sono venute alla luce numerose ceramiche databili al I secolo d.C. con impressi dei sigilli caratteristici, e che parrebbero avere avuto la funzione di camere di condensazione di un distillatore a due corpi. La superficie esterna della parte inferiore fu trattata con l’aggiunta di sabbia grossolana, applicata prima della cottura; un trattamento che viene solitamente effettuato per aumentare la porosità e quindi il raffreddamento del recipiente. In uno spazio di circa 350 mq sono venuti alla luce un centinaio di questi condensatori, e il loro numero, di gran lunga maggiore di quello degli altri pezzi di distillatori ritrovati nel medesimo contesto, ha fatto ipotizzare che queste camere di condensazione, una volta riempitesi di distillato, venissero staccate dall’alambicco e direttamente impiegate per il commercio. Ne sarebbe prova il sigillo di natura commerciale applicato sulla loro superficie. Un altro importante dettaglio consiste nel ritrovamento nel medesimo contesto di numerosi bacini in terracotta, per i quali è stata suggerita la funzione di raffreddatori, dentro ai quali, riempiti d’acqua fredda, veniva immerso il condensatore (Allchin, 1979b). Questa sarebbe la più antica evidenza della pratica di raffreddamento del condensatore per aumentare il rendimento di prodotto finito, il distillato, in contrasto con la credenza, troppo recisa, secondo la quale “Nessun distillatore ebbe un sistema di raffreddamento prima del 1000 d.C.” (Gwei-Djen et al., 1972: 100).
Resti di simili apparecchiature, a due corpi, sono stati ritrovati in India in cinque differenti siti archeologici datati fra il 300 a.C. e il 200 d.C. (Mahdihassan, 1972, 1979), e vi sono elementi sufficienti per ritenere che venissero impiegati per la distillazione di liquidi alcolici, nello specifico una bevanda fermentata a base di fiori del madhu o mahua, cioè dell’albero Madhuca longifolia var. latifolia (Roxb.) A. Chev., della famiglia delle Sapotaceae. Sin dai tempi antichi le popolazioni native dell’India settentrionale ricavano una bevanda fermentata con i suoi fiori, che sono caratterizzati da una certa tossicità. Con lo scopo di detossificare la bevanda così ottenuta, procedono alla sua distillazione. Questa pratica, tutt’ora in uso presso le popolazioni di Bihar della regione nord-orientale dell’India, potrebbe essere alquanto antica, e fu presumibilmente adottata dalle tribù Ariane, che denominarono questo distillato parisrut. Questo termine è presente nell’Atharvaveda, un antico testo religioso datato attorno al 1500 a.C., ed è quindi plausibile datare la preparazione di questo distillato a partire almeno da questa data (Mahdihassan, 1981). La pratica di distillare il madhu è presente nei racconti mitologici delle popolazioni dell’India centrale, dove è presente il tema della creazione del primo distillatore utilizzando le parti del corpo di una donna (si veda Madhu e distillatori).
E’ possibile che l’invenzione delle tecniche di distillazione sia sorta indipendentemente in diverse regioni del globo. Ciò sarebbe testimoniato dall’apparato per distillazione che gli Spagnoli del periodo della Conquista trovarono in uso presso gli antichi Peruviani. Il contenitore principale, quello che veniva posto a ebollizione, era dotato di un coperchio concavo sulla cui superficie inferiore si formava la condensa, e di un collettore in forma di cucchiaio con lungo manico concavo posto sotto alla sua parte inferiore, trasportando in tal modo il distillato in un secondo contenitore esterno. Un apparato identico fu commercializzato in Inghilterra nel XIX secolo spacciandolo come una nuova invenzione inglese (Fairley, 1907, p. 560).
Apparato precolombiano per la distillazione in adozione presso le antiche popolazioni peruviane (da Fairley, 1907, fig. 1, p. 561)
Tecnica di distillazione praticata con successo con vasellame moderno che riproduce quello del vasellame della cultura Capacha (1500-1000 a.C.) del Messico occidentale (da Zizumbo-Villareal et al., 2009, fig. 2, p. 417).
Restando nelle Americhe, parrebbe che anche la cultura Capacha del Messico occidentale, nell’odierno stato di Colima, e datato al Formativo Arcaico (1500-1000 a.C.), avesse sviluppato una particolare tecnica di distillazione, impiegando come contenitore principale dei caratteristici vassoi di ceramica a doppia convessità, cioè con una costrizione centrale, che ricorda la forma di una zucca di Lagenaria siceraria. Per la condensazione e la raccolta del vapore sarebbero stati impiegati altri due tipi di contenitore, sempre in ceramica, che sono stati ritrovati nei medesimi contesti archeologici, e che ben si adattano alle misure del contenitore principale. Il liquido da sottoporre a distillazione sarebbe stato introdotto nel contenitore principale, il quale veniva riscaldato alla base. Il vaso che fungeva da condensatore veniva inserito nella parte superiore, appoggiandosi e combinandosi perfettamente con il largo collo del primo contenitore, e al condensatore sarebbe stato applicato mediante un legaccio il piccolo contenitore di raccolta, che pendeva sotto al condensatore, internamente al contenitore principale. Sperimentazioni eseguite con modelli moderni identici a questi reperti archeologici hanno dimostrato l’adeguatezza di questa strumentazione ai fini di una distillazione di bevande fermentate alcoliche (Zizumbo-Villareal et al., 2009).
Un apparato simile a quello peruviano parrebbe essere stato in uso presso gli antichi giapponesi, mediante il quale ricavavano il liquore sochu dalla bevanda fermentata del saké, ottenuta a partire dal riso. Anche in Cina, in periodi precristiani, si ricavava il liquore sautehoo a partire da bevande fermentate ottenute dal riso, miglio e altri cereali, così come nell’isola di Ceylon si ricavava “da tempi immemorabili” il liquore arrack dalla bevanda fermentata del toddy, ottenuta mediante fermentazione della linfa di una palma. Similmente, parrebbero essere invenzioni alquanto antiche e precedenti l’influenza occidentale le preparazioni del liquore di arika dal koumiss nel Tartaro e dello skhou dal kephir nel Caucaso, entrambi ricavati a partire dal latte di giumenta (Fairley, 1907, p. 565 e Morewood, 1824). Questi dati evidenziano un’arcaica conoscenza delle tecniche di concentrazione della gradazione alcolica delle bevande fermentate che, sebbene fosse riconosciuta dagli autori occidentali del XIX secolo, non è più stata presa in considerazione dagli studiosi del XX secolo, forse per dimenticanza, o per motivi culturali di natura eurocentrica.
Antico apparato per la distillazione in uso nell’isola di Ceylon (da Fairley, 1907, fig. 6, p. 567)
Note
1 – Si vedano ad es. Forbes, 1948; Dietler, 2006. Liebmann (1956) nega addirittura la capacità dei Greci alessandrini di distillare, dato che non avevano elaborato sufficienti dispositivi di raffreddamento per la condensazione dei vapori; ma tali dispositivi non sono una condizione sine qua non, bensì solamente un miglioramento che porta a un maggior rendimento di prodotto distillato; il medesimo autore nega del resto la scoperta dell’alcol da parte degli Arabi, ritenendola una scoperta “occidentale”.
PUPPO PAOLA, 2018, Milk cookers o semplicemente vasi-filtro? Una problematica ancora irrisolta, in: M. Cavalieri & C. Boschetti (cur.), Multa per Aequora. Il polisemico significato della moderna ricerca archeologica. Omaggio a Sara Santoro, UCL, Louvain, vol. I, pp. 309-320.
SCHLOSSER ŠTEFAN, 2011, Distillation from Bronze Age till today, in: J. Markoš (Ed.), Proceedings of the 38th International Conference of Slovak Society of Chemical Engineering, Tatranské Matliare, Slovakia, pp. 1-12.
SLANE W. KATHLEEN, 1986, Two deposits from the Early Roman cellar building, Corinth, Hesperia, vol. 55, pp. 271-420.
TOBLER J. ARTHUR, 1950, Excavations at Tepe Gawra, vol. II, The University Museum of Pennsylvania, Philadelphia.
ZIZUMBO-VILLAREAL DANIET et al., 2009, Distillation in Western Mesoamerica before European Contact, Economic Botany, vol. 63(4), pp. 413-426.
Distillatori arcaici
Arcaic stills
Nella letteratura del XX secolo v’è una tendenza a considerare le tecniche di distillazione come una conquista della nostra era, ritenendo che i primi a scoprirle fossero stati i Greci residenti ad Alessandria d’Egitto agli inizi dell’era cristiana, e la tecnica di distillazione del vino, per ricavare una bevanda con maggior concentrazione di alcol, si sarebbe diffusa in Europa solamente attorno al XII secolo d.C.1 Ma gli studiosi del XIX secolo non erano di questo parere, come si può evincere dagli scritti, ad esempio, di Morewood (1824) e di Fairley (1907), e diversi reperti archeologici ritrovati in disparate aree geografiche parrebbero dimostrare la grande antichità della pratica della distillazione.
In diversi casi non è possibile determinare lo scopo d’impiego di queste antiche apparecchiature, se per produrre bevande superalcoliche, essenze o profumi, e se per scopi inebrianti, magici, medicinali o cosmetici. E’ del resto probabile la precedenza cronologica della distillazione alcolica su quella per ottenere essenze e profumi, per via dell’osservazione empirica della fiamma che sprigiona dal vapore condensato delle bevande alcoliche poste sul fuoco, e che avrà attratto l’attenzione sul vapore sprigionato dai liquidi caldi (Samorini, 2017). Per questo medesimo motivo si può supporre che laddove siano presenti distillatori per la produzione di essenze e profumi, erano già note le tecniche di concentrazione dell’alcol.
E’ il caso di ricordare che per distillare liquidi alcolici, con lo scopo di aumentare la gradazione alcolica, la migliore tecnica è quella di riscaldare il liquido alla temperatura di ebollizione dell’alcol (78.4 °C), senza raggiungere la temperatura di ebollizione dell’acqua (100 e oltre °C), in modo tale da indurre una separazione dei due elementi alcol e acqua.
Il distillatore è costituito da tre parti funzionali: il bacino dove si porta ad ebollizione il liquido madre per far produrre il vapore, una camera di condensazione dove il vapore si ritrasforma in liquido (che è il distillato), e un raccoglitore del distillato.
Nei primissimi strumenti le tre funzioni della distillazione – ebollizione, condensazione, raccolta – si sviluppavano in un medesimo corpo costituito da due o tre recipienti.
E’ possibile osservare questo accorpamento delle tre funzioni nei più antichi distillatori sino ad oggi noti, di cui il più antico in assoluto è venuto alla luce in Slovacchia ed è datato al 4000 a.C. Si tratta di alcuni frammenti di ceramica appartenenti al gruppo culturale Lužani, incontrati nel sito di Abrahám; reperti simili sono venuti alla luce nei siti slovacchi di Vrbové e di Šurany-Nitriansky Hrádok, con una datazione al 3000 a.C., e nella famosa città anatolica di Troia (strato V) del 2000 a.C. Se la ricostruzione è corretta, questi frammenti potrebbero essere appartenuti a degli apparati costituiti da tre pezzi mobili, equivalenti nella loro funzione ai moderni estrattori a riflusso, dove il vapore prodotto dal riscaldamento del liquido madre si condensa sulla superficie delle pareti superiori, e le goccioline di condensato ricadono in buona parte su un collettore anulare collocato in posizione intermedia, mentre le altre ricadono nel bacino inferiore (Ryšánek, 1993). I distillatori e i separatori che si basano su questo meccanismo possono essere definiti “estrattori ad anello di recupero”.
Apparecchi simili e in maniera meno frammentaria ci sono pervenuti dalla Mesopotamia, appartengono al periodo di Uruk e datano al 3500 a.C. Sono diversi oggetti in ceramica venuti alla luce nel sito di Tepe Gawra, nel nord dell’Iraq (Tobler, 1950, figg. 346 e 405-407). Sono costituiti da un contenitore dalla forma conica, dotato nella parte superiore di una specie di collettore circondante l’orlo (“anello di recupero”), e da un coperchio profondo quasi quanto il contenitore, sulla cui superficie interna il vapore si condensava e le gocce di condensazione rifluivano nel collettore.
Nei medesimi contesti archeologici di Tepe Gawra sono stati trovati altri apparati di ceramica, molto simili a quelli ad anello di recupero per la distillazione, ma con l’aggiunta di forellini nella parte inferiore del bordo interno dell’anello, e che sono stati interpretati come apparati per l’estrazione a riflusso continuo e per la separazione della fase oleosa da quella acquosa, atti dunque alla produzione di essenze e profumi. E’ plausibile ritenere la presenza dei forellini all’interno del doppio bordo come distintivo di strumenti per la separazione, quindi per l’elaborazione di essenze e profumi, mentre la loro assenza indicherebbe strumenti per la distillazione di bevande alcoliche. In Mesopotamia, i Sumeri avevano dunque già conquistato le tecnologie per l’elaborazione di bevande ardenti e di essenze e profumi. Ed è sempre in Mesopotamia che, un paio di millenni dopo, in un gruppo di tavolette accadiche datate al 1200 a.C. si ritrovano fra le prime documentazioni scritte delle operazioni di profumeria, con l’esplicito riferimento all’isolamento della fase oleosa da quella acquosa (Levey, 1955).
Un distillatore ad anello di recupero molto simile a quelli mesopotamici è stato ritrovato nel sito slovacco di Spišsky Štvrtok ed è datato al 1500 a.C., quindi nella medesima area geografica dove sono venuti alla luce i frammenti di separatore del 4000-3000 a.C. riportati poco sopra. In questo caso l’anello di recupero è dotato di una bocca d’uscita del liquido distillato, il quale veniva raccolto in un recipiente esterno all’apparato; di questo apparato si è conservato solamente una parte del recipiente e non quella del coperchio (Ryšánek & Václavû, 1989; per una foto a colori dell’oggetto si veda Schlosser, 2011, fig. 2, p. 2).
Recentemente, l’archeologo John Bartholomew (2015) ha costruito una copia dell’apparato slovacco, impiegandola come distillatore e ottenendo un distillato alcolico di buona qualità, dimostrando con ciò la sua funzionalità come apparato per concentrare il grado alcolico del vino. Il medesimo studioso, specializzato in archeologia sperimentale, ha evidenziato come un’enigmatica ceramica ritrovata nell’antica capitale degli Hittiti – Hattusa – e datata agli inizi del II millennio a.C., in forma di teiera ma con una particolare struttura interna a doppia parete, potrebbe avere svolto la funzione di condensatore di vapore e raccoglitore del distillato, che veniva in seguito direttamente versato come avviene con una comune teiera.
Ceramiche simili sono venute alla luce in Sardegna, negli scavi della cultura nuragica del II millennio a.C., e anche in questo caso sono presenti le due tipologie riscontrate in Mesopotamia, cioè quella ad anello di recupero, adatta alla distillazione dell’alcol, e quella ad anello con fori, adatta alla separazione di essenze. La prima è venuta alla luce nel Nuraghe Nastasi (Tertenia, Nuoro, XIV-XIII secolo a.C.), e la seconda nella cosiddetta “capanna delle riunioni” del villaggio nuragico La Prisgiona (Arzachena). Per entrambi i casi sono state trovate solamente le parti inferiori delle apparecchiature, sebbene a La Prisgiona sia stata ritrovata a poca distanza dal separatore una ceramica la cui forma ha fatto sospettare che facesse parte della parte superiore mancante (Antona et al., 2010, pp. 1728-30).
Anche a Cipro è venuta alla luce la parte inferiore di un distillatore ad anello di recupero fra il corredo funebre della tomba 104 di Palaeopaphos Teratsoudhia, con datazione al 1400-1500 a.C. L’oggetto è un vassoio tripode di ceramica in cui l’anello di recupero è dotato di un vistoso becco, collocato lontano dalle gambe in maniera tale da permettere il travaso del distillato in un altro recipiente (Karageorghis, 1990, p. 66 e tav. XXIX, p. 207).
Un frammento di un apparente apparato ad anello di recupero è venuto alla luce negli scavi di Tirinto, in Argolide (Grecia) sempre con datazione attorno alla metà del II millennio a.C. (Karageorghis, 1990, p. 67).
Numerosi apparati ad anello di recupero sono venuti alla luce dagli scavi di facies culturali più tarde, ma non sempre sono riconosciuti come apparati per la distillazione (quando senza fori) o per la separazione (quando dotati di fori). Gli oggetti di questo tipo dei periodi romani sono spesso rientrati in maniera acritica nella categoria funzionale di “bollitori per il latte”, proposta nel 1952 da Gustav Behrens (1952a). Frammenti di questo tipo di separatori, con anello di recupero dotato di fori, datati al I secolo d.C., quindi all’età imperiale romana, sono venuti alla luce negli scavi di Corinto (Slane, 1986, p. 287, e fig. 10.57 e tav. 64.57), e separatori più completi, definiti come “vasi per il culto”, sempre del medesimo periodo e cultura imperiale romana, nella regione tedesca di Mainz (Behrens, 1952b). Tuttavia, una recente rivisitazione di questi vasi ha escluso che potessero essere impiegati né come bollitori per il latte né come distillatori, in quanto sono dotati di una verniciatura sia all’interno che all’esterno, tale da escludere il fatto che venissero posti sul fuoco. Del resto, non sono state trovate tracce di esposizione al fuoco (Puppo, 2018).
Un passo successivo nel percorso evolutivo della tecnologia della distillazione fu quello di separare dall’apparato atto alla vaporizzazione del liquido madre gli altri due processi della condensazione del vapore e della raccolta del condensato, e furono quindi ideati i distillatori a doppio corpo.
I più antichi distillatori di questo tipo sono venuti alla luce nel corso degli scavi di Pyrgos, nell’isola di Cipro, dove è stato scoperto una vero e proprio laboratorio-officina per la produzione di profumi datato attorno al 1800 a.C., e il cui soffitto era crollato coprendo (e conservando) tutto quanto. Fra le ceramiche del laboratorio erano presenti numerosi imbuti e due alambicchi per distillazione a doppio corpo con il collettore per il trasporto del vapore nella camera di condensazione, molto simili agli alambicchi medievali. Non è chiaro cosa venisse distillato nel laboratorio di Pyrgos, se essenze o liquori, ma la possibilità che vi venissero ricavati anche liquidi ad elevata concentrazione di alcol sarebbe suffragata dal fatto che i due distillatori sono stati ritrovati vicini a una giara per vino e che numerosi semi d’uva erano sparsi sul terreno (Belgiorno, 2014, 2017).
Come ha fatto notare la Belgiorno (2014, p. 228), l’archeologa che ha scavato l’officina di Pyrgos, gli alambicchi si sono “salvati”, pur ridotti in mille pezzi, grazie al crollo dell’officina. Altrimenti, se il contesto non fosse stato integro, se fossero giunti solo dei frammenti di ceramiche non collegabili fra di loro, i due apparati distillatori non sarebbero stati identificati. Ed è in questa considerazione che risiede un plausibile motivo della rarità di ritrovamento di apparati distillatori fra i reperti archeologici, dovuta non tanto alla rarità della pratica della distillazione, quanto alla difficoltà di individuarli partendo da isolati frammenti di ceramica, parallelamente alla tendenza a non cercarli nei contesti antichi, precristiani, una tendenza causata dall’errato luogo comune che la distillazione sia una conquista tecnologica recente.
Anche in Pakistan, nel sito di Taxila, sono stati ritrovati resti di ciò che appaiono essere elementi di un apparato per distillazione che ricorda l’alambicco dei periodi medievali europei. Questi reperti sono datati al 150 a.C. (Allchin, 1979). Resti di simili apparecchiature sono state ritrovate in India in cinque differenti siti archeologici datati fra il 300 a.C. e il 200 d.C. (Mahdihassan, 1972, 1979). Uno dei distillatori di Taxila, datato al 300 a.C., inizialmente interpretato come distillatore per l’acqua, è stato in seguito riconsiderato come un distillatore per l’alcol (Mahdihassan, 1979, p. 264).
Sempre in Pakistan, nel sito di Shaikhān Dheri, situato nella valle di Peshawar, sono venute alla luce numerose ceramiche databili al I secolo d.C. con impressi dei sigilli caratteristici, e che parrebbero avere avuto la funzione di camere di condensazione di un distillatore a due corpi. La superficie esterna della parte inferiore fu trattata con l’aggiunta di sabbia grossolana, applicata prima della cottura; un trattamento che viene solitamente effettuato per aumentare la porosità e quindi il raffreddamento del recipiente. In uno spazio di circa 350 mq sono venuti alla luce un centinaio di questi condensatori, e il loro numero, di gran lunga maggiore di quello degli altri pezzi di distillatori ritrovati nel medesimo contesto, ha fatto ipotizzare che queste camere di condensazione, una volta riempitesi di distillato, venissero staccate dall’alambicco e direttamente impiegate per il commercio. Ne sarebbe prova il sigillo di natura commerciale applicato sulla loro superficie. Un altro importante dettaglio consiste nel ritrovamento nel medesimo contesto di numerosi bacini in terracotta, per i quali è stata suggerita la funzione di raffreddatori, dentro ai quali, riempiti d’acqua fredda, veniva immerso il condensatore (Allchin, 1979b). Questa sarebbe la più antica evidenza della pratica di raffreddamento del condensatore per aumentare il rendimento di prodotto finito, il distillato, in contrasto con la credenza, troppo recisa, secondo la quale “Nessun distillatore ebbe un sistema di raffreddamento prima del 1000 d.C.” (Gwei-Djen et al., 1972: 100).
Resti di simili apparecchiature, a due corpi, sono stati ritrovati in India in cinque differenti siti archeologici datati fra il 300 a.C. e il 200 d.C. (Mahdihassan, 1972, 1979), e vi sono elementi sufficienti per ritenere che venissero impiegati per la distillazione di liquidi alcolici, nello specifico una bevanda fermentata a base di fiori del madhu o mahua, cioè dell’albero Madhuca longifolia var. latifolia (Roxb.) A. Chev., della famiglia delle Sapotaceae. Sin dai tempi antichi le popolazioni native dell’India settentrionale ricavano una bevanda fermentata con i suoi fiori, che sono caratterizzati da una certa tossicità. Con lo scopo di detossificare la bevanda così ottenuta, procedono alla sua distillazione. Questa pratica, tutt’ora in uso presso le popolazioni di Bihar della regione nord-orientale dell’India, potrebbe essere alquanto antica, e fu presumibilmente adottata dalle tribù Ariane, che denominarono questo distillato parisrut. Questo termine è presente nell’Atharvaveda, un antico testo religioso datato attorno al 1500 a.C., ed è quindi plausibile datare la preparazione di questo distillato a partire almeno da questa data (Mahdihassan, 1981). La pratica di distillare il madhu è presente nei racconti mitologici delle popolazioni dell’India centrale, dove è presente il tema della creazione del primo distillatore utilizzando le parti del corpo di una donna (si veda Madhu e distillatori).
E’ possibile che l’invenzione delle tecniche di distillazione sia sorta indipendentemente in diverse regioni del globo. Ciò sarebbe testimoniato dall’apparato per distillazione che gli Spagnoli del periodo della Conquista trovarono in uso presso gli antichi Peruviani. Il contenitore principale, quello che veniva posto a ebollizione, era dotato di un coperchio concavo sulla cui superficie inferiore si formava la condensa, e di un collettore in forma di cucchiaio con lungo manico concavo posto sotto alla sua parte inferiore, trasportando in tal modo il distillato in un secondo contenitore esterno. Un apparato identico fu commercializzato in Inghilterra nel XIX secolo spacciandolo come una nuova invenzione inglese (Fairley, 1907, p. 560).
Restando nelle Americhe, parrebbe che anche la cultura Capacha del Messico occidentale, nell’odierno stato di Colima, e datato al Formativo Arcaico (1500-1000 a.C.), avesse sviluppato una particolare tecnica di distillazione, impiegando come contenitore principale dei caratteristici vassoi di ceramica a doppia convessità, cioè con una costrizione centrale, che ricorda la forma di una zucca di Lagenaria siceraria. Per la condensazione e la raccolta del vapore sarebbero stati impiegati altri due tipi di contenitore, sempre in ceramica, che sono stati ritrovati nei medesimi contesti archeologici, e che ben si adattano alle misure del contenitore principale. Il liquido da sottoporre a distillazione sarebbe stato introdotto nel contenitore principale, il quale veniva riscaldato alla base. Il vaso che fungeva da condensatore veniva inserito nella parte superiore, appoggiandosi e combinandosi perfettamente con il largo collo del primo contenitore, e al condensatore sarebbe stato applicato mediante un legaccio il piccolo contenitore di raccolta, che pendeva sotto al condensatore, internamente al contenitore principale. Sperimentazioni eseguite con modelli moderni identici a questi reperti archeologici hanno dimostrato l’adeguatezza di questa strumentazione ai fini di una distillazione di bevande fermentate alcoliche (Zizumbo-Villareal et al., 2009).
Un apparato simile a quello peruviano parrebbe essere stato in uso presso gli antichi giapponesi, mediante il quale ricavavano il liquore sochu dalla bevanda fermentata del saké, ottenuta a partire dal riso. Anche in Cina, in periodi precristiani, si ricavava il liquore sautehoo a partire da bevande fermentate ottenute dal riso, miglio e altri cereali, così come nell’isola di Ceylon si ricavava “da tempi immemorabili” il liquore arrack dalla bevanda fermentata del toddy, ottenuta mediante fermentazione della linfa di una palma. Similmente, parrebbero essere invenzioni alquanto antiche e precedenti l’influenza occidentale le preparazioni del liquore di arika dal koumiss nel Tartaro e dello skhou dal kephir nel Caucaso, entrambi ricavati a partire dal latte di giumenta (Fairley, 1907, p. 565 e Morewood, 1824). Questi dati evidenziano un’arcaica conoscenza delle tecniche di concentrazione della gradazione alcolica delle bevande fermentate che, sebbene fosse riconosciuta dagli autori occidentali del XIX secolo, non è più stata presa in considerazione dagli studiosi del XX secolo, forse per dimenticanza, o per motivi culturali di natura eurocentrica.
Note
1 – Si vedano ad es. Forbes, 1948; Dietler, 2006. Liebmann (1956) nega addirittura la capacità dei Greci alessandrini di distillare, dato che non avevano elaborato sufficienti dispositivi di raffreddamento per la condensazione dei vapori; ma tali dispositivi non sono una condizione sine qua non, bensì solamente un miglioramento che porta a un maggior rendimento di prodotto distillato; il medesimo autore nega del resto la scoperta dell’alcol da parte degli Arabi, ritenendola una scoperta “occidentale”.
Si vedano anche:
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